Theodor W. Adorno

Il fastidio per Adorno giudica più noi di lui

Matteo Marchesini

Cosa resta della ricchezza dialettica del più autorevole interprete della Scuola di Francoforte, a 50 anni dalla sua morte

Mezzo secolo fa, nell’agosto 1969, moriva Theodor Wiesengrund Adorno, il più autorevole interprete della Scuola di Francoforte. Oggi di solito lo si cita come un cimelio polveroso, l’antonomasia di quell’highbrow apocalittico che Lukács fissò nell’immagine dell’Hotel Abisso. Ma una tale sufficienza giudica più noi di lui: rivela ciò che abbiamo perso e ciò che vorremmo perdere, ossia i sentimenti di cui ci vergogniamo perché sembra impossibile esprimerli senza che arrivi subito la polizia del sarcasmo. Già a metà ’900 ci volle tutta la sottigliezza argomentativa del filosofo, fachiro beckettiano capace di contorcersi dialetticamente in uno spazio minimo, per riabilitare quelle fragilità che solo dove siamo amati possiamo mostrare inermi senza stimolare il sadismo.

 

Adorno non offre soluzioni ma aporie: nella sua dialettica negativa Kierkegaard e Nietzsche fanno lo sgambetto a Marx e a Hegel. Prendiamo proprio l’esempio amoroso, fermandoci su uno di quei paragrafi di “Minima moralia” che condensano in poche righe teorie, apologhi, aforismi, intuizioni psicologiche, e memorabili confronti tra la storia del pensiero, dell’arte e del costume. Nella società industriale avanzata, dove impera la pianificazione, si pretende che l’amore sia un’oasi di spontaneità. La pretesa indica una giusta aspirazione a infrangere l’ordine alienante; ma se si tenta di realizzarla nell’immediato, la si riduce alla “falsità universale” di quell’ordine. Infatti è la posizione sociale a determinare ciò che sembra “spontaneamente” attraente; e chi crede di abbandonarsi sincero alla “voce del cuore”, fuggendo da un amore a un altro appena non la sente più, sposa in realtà un romanticismo calcolatore: “senza saperlo, registra i numeri che escono via via alla roulette degli interessi” molto più di chi mantiene una fedeltà in apparenza legittimata solo dalle convenzioni.

 

Qualcosa di simile vale per il “tatto”: se è vero che da delicato sigillo della borghesia in ascesa è divenuto un galateo umiliante, è altrettanto vero che chi lo liquida in nome della schiettezza passa dall’ipocrisia alla pura brutalità del comando, che è poi il punto di caduta politico delle metafisiche dell’Autentico alla Heidegger. Quanto alla cultura, dopo Auschwitz tutta, “compresa l’urgente critica a essa”, è per Adorno “spazzatura”, e se chi vuole conservarne la funzione diventa “collaborazionista”, chi le si sottrae “incrementa direttamente quella barbarie che (…) ha mostrato di essere”. Né si salva la filosofia sistematica, destinata a divorare tutto e ad autodivorarsi come le dittature. Perciò Adorno sceglie la forma del saggio e del frammento. Dopo la sua morte l’egemonia filosofica passò ai francesi, che spesso proposero caricature retoricamente estremistiche dei suoi temi. La loro sofistica ipostatizza con troppa facilità l’Indicibile, e dietro la maschera della raffinatezza cataloga vasti orizzonti storici o epistemologici sotto grossolane etichette positivistiche. Adorno invece ha un’eccezionale sensibilità per i trapassi da un ambito di senso all’altro: lotta febbrilmente per restituire le sfumature che legano e separano le esperienze culturali, sociali e psichiche. Ciò che infastidisce oggi è questa ricchezza dialettica, e l’espressione di un disagio soggettivo in cui il pensatore radica anche le più dure polemiche con l’umanesimo.

 

E’ la paura di misurarsi con i residui “offesi” dell’umanità propria e altrui a rendere Adorno inattuale. Non a caso le suggestioni filosofiche più apprezzate, a partire dal riflusso del 1980, sono antidialettiche: da una parte – uso i nomi come sineddoche – quelle di “Benjamin”, dall’altra quelle di “Deleuze”. In Benjamin tra materialismo e messianismo saltano i ponti, la visione a misura d’uomo. Quanto a Deleuze, serve a dar ragione a ciò che la sua ragione l’ha già ottenuta con la forza: l’immanentismo scatenato nutre l’ideologia di un mondo che non conosce più un fuori, un’alternativa plausibile su cui far leva, rimuovendo il negativo e l’errore per esaltare un presente che trabocca della sua stessa pienezza. La funzione Benjamin permette di alludere a una propria vaga inintegrabilità rimanendo però oggettivisti all’estremo, e tracciando intorno alle inerti costellazioni di oggetti il cerchio di una radiazione misteriosa; la funzione Deleuze, rituffando il soggetto in un atto puro, trasforma verbalmente la sua impotenza in onnipotenza e gli evita l’accusa che più teme: quella di essere un ingenuo moralista, un risentito per frustrazione. Da un lato il motto è un fiabesco “Marmellata domani e marmellata ieri, mai marmellata oggi”, dall’altro lato un frenetico “Si può quel che si fa”.

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