L'uno sul palco che vale uno in platea
Come Grillo si è nascosto dietro la gente per mascherare una lunga crisi creativa
Nel suo libro “Me Tapiro”, Antonio Ricci racconta del suo incontro con Beppe Grillo nei più scalcinati cabaret liguri nei primissimi anni 70. All’epoca Grillo “era solito frequentare gli spettacoli degli altri comici e appuntarsi le migliori battute su una agenda […] per riciclarle nei suoi spettacoli”; così, quando Grillo viene notato da Pippo Baudo e chiamato in tv, preso dal panico “di essere scoperto” il comico genovese chiede immediatamente a Ricci di fargli da autore. In questo inizio di carriera c’è già tutto il Grillo futuro, compreso il politico: un uomo che non ha nulla da dire, consapevole del proprio bluff ma deciso a non farsi scoprire, anzi, a rilanciare sempre.
Grillo è sempre stato un animale da palcoscenico, travolgente, trascinante e istintivo; ma poco originale e privo di contenuti – come le reputava Gino Bongiovanni, proprietario del tempio della comicità milanese, il Derby Club, che infatti lo bocciò. Il Grillo degli inizi, il Grillo comico, quello dei vari “Fantastico”, di “Te la do io l’America” e “Te lo do io il Brasile”, di “Domenica In”, dello Speciale Tg1 sulla notte delle elezioni del 1983, è scritto da Antonio Ricci, Stefano Benni, Michele Serra: sono loro gli autori delle sue battute, delle sue gag; sono loro a “dare da mangiare al mostro” – come ci si riferisce in gergo agli autori che scrivono per i comici. Il loro contributo è un apporto fondamentale e dirimente: sono loro a instradarlo su certi temi, sono loro a dargli le chiuse comiche, sono loro a creare Beppe Grillo. Per questo Beppe Grillo non è mai stato neanche alla lontana uno stand-up comedian: la stand-up comedy richiede necessariamente una scrittura personale che parte da un lavoro sulla propria persona (sulle proprie debolezze, fragilità, contraddizioni), una disponibilità a mettersi in gioco che Grillo si è sempre guardato bene dal praticare. A parte qualche stereotipato riferimento al suo essere genovese, Grillo nei suoi spettacoli non racconta nulla di sé; solo nel suo “Grillo Vs Grillo” del 2017 (distribuito su Netflix) dà accenni biografici, ma del tutto superficiali e talvolta agiografici, accenna alla dicotomia fra comico e politico ma non affonda mai, resta in superficie e non si demolisce – cosa che invece è il primo comandamento nella stand-up comedy: “Io faccio parte della corruzione che metto alla berlina”, diceva Lenny Bruce; ve lo immaginate Grillo fare battute su di sé come le ha fatte sui socialisti o sui politici in generale?
La mancanza di un personaggio comico definito e padroneggiato a livello cosciente e non solo istintuale è una delle ragioni per cui Grillo è l’unico grande comico della sua generazione a non aver sfondato al cinema. Benigni, Nuti, Troisi, Verdone: tutti trovano nel cinema, per giunta dirigendosi anche dietro la macchina da presa, la naturale evoluzione del racconto del proprio personaggio e del proprio mondo; Grillo invece, dopo soli tre film (“Cercasi Gesù”, “Scemo di guerra”, “Topo Galileo”) sempre diretto da altri – Comencini (non ditelo a Calenda), Risi, Laudadio – nessuno particolarmente memorabile né fortunato, abbandona il grande schermo per evidente incompatibilità. Grillo ha necessità del contatto diretto e selvaggio con il pubblico, con il quale stabilisce una lunga relazione teatrale: il primo spettacolo, che doveva traghettare il pubblico dal Grillo televisivo a quello live, fu scritto da Michele Serra per la regia di Giorgio Gaber; poi – almeno ufficialmente, al netto di eventuali collaborazioni non dichiarate – Grillo diventa autore di sé stesso. E infatti cessa di far ridere: il divertimento nei suoi spettacoli degli anni 90 e primi 2000 è “sulla fiducia”. A Grillo basta sbraitare, agitarsi, fare azioni plateali come rompere dei computer in scena (nel 2000: prima del blog e della Piattaforma Rousseau), insomma, a Grillo è sufficiente fare Grillo, la parodia di sé stesso, “il matto sull’autobus” che sbraita di argomenti più grandi di lui, che il pubblico ride, anzi il più delle volte applaude. Il pubblico condivide rabbie e indignazioni del Grillo-santone; ma si diverte? All’uscita dalla tappa romana del suo spettacolo “Te la do io l’Europa”, nell’aprile del 2014, mi trovai a fare domande al pubblico pagante per un servizio televisivo; e l’unanimità degli spettatori mi dissero che no, lo spettacolo “non faceva ridere” al netto di un paio di barzellette (BARZELLETTE!?!? Nel 2014???), non c’erano battute, era – testuali parole – “un comizio” ; ma gli spettatori erano contenti, perché erano “venuti a vedere il politico” – senza badare alla contraddizione del pagare un biglietto per vedere un comizio, comizio sul quale il politico Grillo prende anche la Siae…
Grillo ha smesso di essere un comico così come i suoi spettatori hanno smesso di essere il suo pubblico, e sono diventati i suoi seguaci. Nella stand-up comedy il comico cerca un rapporto intimo e promiscuo con il pubblico, ma lì l’esorcismo e la catarsi della risata non sono mai indulgenti bensì amaramente rivelatori. Grillo al contrario ha cercato e ottenuto una fusione auto-assolutoria con il proprio pubblico: nel 1989, in conclusione del suo intervento sul palco dell’Ariston durante il Festival di Sanremo, dopo una battuta su Sandro Mayer nella quale gli dà direttamente del “coglione”, Grillo dice parole rivelatrici, una sorta di dichiarazione d’intenti: “Ora io qua vi voglio solidali, io mi prendo una denuncia, se siete con me vi alzate in piedi se la pensate come me! (alla regia) Inquadrateli! (pubblico dell’Ariston plaudente e in piedi) E’ ora di finirla che io vi faccio ridere e poi fanno un culo così a me!”. E’ lì che Grillo annuncia il suo futuro ritiro dalle scene comiche per abbracciare il populismo, dove uno (sul palco) vale uno (in platea), in una deresponsabilizzazione di massa. Per nascondere la sua impostura originaria, per mascherare una crisi creativa che dura ormai da quasi 30 anni, Beppe Grillo si è nascosto dietro la gente.
Che non ride più, applaude soltanto.
Antifascismo per definizione