Paolo Virzì (LaPresse)

L'Italia con la regia di Virzì

Michele Masneri e Andrea Minuz

Un paese di santi, mitomani, grillini e talk-show. Da Alberto Sordi a Checco Zalone passando per i maestri della commedia all’italiana: una chiacchierata con l’autore di “Ferie d’agosto”, che sa raccontare come pochi la capitale e la provincia, ricchi e poveri, borghesi e proletari

È uno dei pochi che sa raccontare sia la capitale che la provincia, i ricchi e i poveri, i borghesi e i proletari, che sa fare film di successo commerciale e insieme impegno civile (senza che queste parole, “impegno civile”, spingano la mano alla pistola). Insomma, Paolo Virzì si muove nella tradizione della grande commedia all’italiana, quella che prendeva in giro gli spettatori paganti portandoli al cinema. Siamo qui nel suo ufficio a San Saba, bosco orizzontale romano, quasi di fronte a quella che era la vecchia casa di Vittorio De Sica, tra tanti libri di storia, tappeti etnici e ritratti del suo animale-guida, Furio Scarpelli, che insieme ad Age ha scritto i meglio film del dopoguerra. Virzì studia l’Italia da quassù.

   

Roma, “così sciatta e sublime”, gli pare “l’unico posto che sa coniugare massime ambizioni e massima volgarità”

“Ero iscritto all’Università di Pisa, studiavo storia dei partiti politici, se fosse andata male a Roma ero pronto a ritornare a Livorno”. Come tutti i provinciali, poi, non se ne andrà mai più. Dalla Roma di metà anni Ottanta, “sporca come oggi”. “Col Lungotevere tenebrosissimo, senza illuminazione. Alla stazione Termini vendevano antenne televisive portatili, c’era questo clima apocalittico e carnevalesco e io ero felice perché finalmente ero arrivato in un posto volgare”, dice, come sognante, il regista. Perché Roma gli pare “l’unico posto dove fare cinema, l’unico posto che sa coniugare massime ambizioni e massima volgarità, una cosa che puoi trovare solo in questa città così sciatta e sublime”. La volgarità è un tema che lo affascina (“io venivo da Livorno, dove c’era solo un trans che serviva tutti, davanti alla caserma dei paracadutisti”, dove il trans viene usato tipo pil, un indicatore della qualità della vita, come in quelle classifiche dove vince sempre Bolzano o Milano); arriva così in questa città “di pensioni e mignottoni, col Colosseo nerissimo, pieno di smog, ma a me questa Roma piaceva, una città governata male da sindaci invisibili, gli ultimi sindaci del pentapartito”.

 

Vince il concorso al Centro sperimentale ma soprattutto una specialissima scuola di sceneggiatura outdoor. “Scarpelli ci portava a via Tuscolana con la scusa di comprarsi un paio di scarpe o una cinta. In realtà a immaginare la storia di uno o dell’altro, lezioni en-plein air; a vedere i muratori che stavano in pausa col panino, e lui chiedeva, come butta? Buono il panino? E spiegava: Sergio Amidei, mio maestro, faceva sempre così, facendoci vergognare, a volte. Se in un film dovevamo mettere un fabbro, andava da un fabbro, o ci faceva telefonare a un fabbro. Quanto guadagna? Quanti giorni lavora? A volte loro lo mandavano affanculo, altre no. Era il suo metodo”. Poi ci portava alla Mas film, la società che aveva fondato insieme a Age e Scarpelli a via Bertoloni ai Parioli, stavano scrivendo ‘La famiglia’, di Scola, io andavo a seguire questi incontri, pigliavo appunti, e li portavo da Di Mario, una copisteria che serviva tutta la gente del cinema, e c’erano queste commesse che erano un po’ un primo test per capire se un film poteva funzionare, se dicevano, ‘ah, bella questa scena, mi ha fatto ridere’, eravamo contenti. Una volta Scarpelli aveva scritto un copione per Pontecorvo e io dovevo portare questo scartafaccio enorme in copisteria, l’avevo appoggiato sul tettuccio della macchina, parto, e solo a un certo punto mi ricordo dei fogli, guardo indietro e mi vedo tutta via Bertoloni con questi fogli svolazzanti. Mi fermo, li raccolgo, ma tanti sono perduti, uno nel fango, uno su un albero, allora ho fatto delle giunte mie, ho inventato delle parti. Poi per fortuna non se n’è fatto niente, era un film sull’arcivescovo Romero”. Sempre ai Parioli, altre presenze. Dino Risi, al residence Aldrovandi, dove si era tumulato in sprezzante solitudine. “Cattivissimo, godeva nel vedere la mia ammirazione, e mi demoliva tutti i miti, ‘questa è una tvoia, quella una stvonzata, quel film è una mevda” (Virzì è bravissimo a fare le varie imitazioni).

  

   

Dino Risi in sprezzante solitudine. “Cattivissimo, godeva nel vedere la mia ammirazione, e mi demoliva tutti i miti”

Virzì è stato un grande collezionista di vecchietti, di mostri sacri. Li ha conosciuti tutti, e frequentati. “‘Sabato domenica e lunedì’ doveva girarlo Risi e sceneggiarlo Tonino Guerra insieme a Dudù La Capria. Così andiamo a Sant’Arcangelo di Romagna dove viveva il poeta, con La Capria che odiava tutto di quel progetto, a partire da Guerra: gli era venuto perfino uno sfogo in faccia, per il nervoso. E Tonino Guerra invece, all’apice della gloria, ci riceve a casa sua tra le decine di questuanti, gente che gli porta bambini da benedire, e in piedi (Virzì imita la parlata romagnola), detta: “alòra, Marzello è in piedi, davanti a uno specchio a tre ante. Si vede riflesso tre volte. Un’imagine potentiscima. Se Risi la vuole beene, se no la diamo a Angelopoulos’. E La Capria: ‘Stu strunz’emmerda!’”.

  

“Era una stagione fantastica”, continua Virzì vagheggiando i titani di Cinecittà che succhiavano il sangue giovane dei “negri” (nome in codice degli sguatteri tuttofare degli scrittori cinematografari): “Nessuna polemica nell’essere sfruttati da parte nostra, anche se chiaramente non c’era spazio per nessuno di noi, perché questi grandi vecchi erano attaccati con le unghie e con i denti al loro ruolo e al loro potere, tu non mettevi mai il tuo nome su niente, però allo stesso tempo era una scuola pazzesca”. 

  


Il cinema che svela un paese. La provincia, la mitomania, la frustrazione: “Amarcord” racconta “come il fascismo sia modellato sul nostro carattere nazionale”. E poi Sordi della “Grande guerra” e Gassman


  

Con varie gradazioni: “Scarpelli faceva firmare anche gli assistenti. De Concini invece no, aveva uno stuolo di assistenti, leggeva sei copioni contemporaneamente, saltava di sedia in sedia, faceva due modifiche, poi firmava, metteva mano alla tasca e tirava fuori un rotolo di banconote e ti pagava così, cash”.

 

Beppe Grillo, Salvini, Iacovoni

Cash anche per una giovane promessa che si aggirava nella Roma di quegli anni, dove non c’erano solo i dinosauri leggendari, ma anche qualche nuovo animaletto. Beppe Grillo, “molto interessante a livello psicologico, me lo ricordo a Piazza Navona, ai Tre scalini, trafficava e comprava battute, era estate, si vantava dei soldi che aveva preso in nero, nelle serate. Grillo è un attore, e dell’attore ha la psicologia”, riflette Virzì che sui Cinquestelle non è tenero. “E’ un attore che viene chiamato a contratto, per interpretare dei copioni, buffi, o indignati. E’ incredibile come sia stato considerato un leader, scambiato per un politico. Lui orecchia le cose, le rifà, perché è appunto uno straordinario attore; ma non può essere più che un testimonial, pagato, non so in che forma. Un influencer della Casaleggio. Un grande comico, anche se non proprio del mio genere preferito”. I grillini ricambiano tanto affetto. “Una volta una troupe di ‘Piazza Pulita’ mi chiese delle cose su Grillo e successivamente sono finito in una shitstorm, come si dice. Ventimila tweet, organizzati, vuol dire che la Casaleggio si era attivata”. “Un’altra sono stato nominato pure ‘regista del giorno’, sai che c’è il giornalista del giorno, additato alla pubblica gogna sul sito dei Cinquestelle, ecco, io ero il regista del giorno, perché avevo commentato l’elezione di quel bischero di Nogarin a Livorno”. “Un’altra volta ancora ero qui al mercato con la mi’ moglie e il mi’ figliolo, e ci hanno circondato, e hanno cominciato a urlarmi dietro che prendo i soldi da Renzi, come no”, ride Virzì. “Però mi sono spaventato”. “Ho sentito che era proprio una manifestazione di squadrismo, di fascismo”, dice Virzì. “Ma credo che oggi sia una cosa finita, gli odiatori mi sembra che stiano andando verso una struttura di odio più organizzata, cioè direttamente la Lega di Salvini”. La parola “fascismo” Virzì la pronuncia molte volte durante questa intervista, con un punto di vista interessante, come se fosse una specie di fase senile di una malattia molto italiana, la mitomania.

   

  

Grillo: “E’ incredibile come sia stato considerato un leader, scambiato per un politico”. L’odio sui social: “Credo che oggi sia una cosa finita, gli odiatori mi sembra che stiano andando verso una struttura
di odio più organizzata, cioè direttamente la Lega di Salvini”

Questi fascisti italiani gli sembrano attraversare il tempo e le casacche come una parata di mammoni, ragazzoni narcisi molto gaddiani. “Anche se ho una formazione da storico, anche se di fronte ai fenomeni politici ragiono da storico”, dice indicando i volumoni verdi della Storia D’Italia Einaudi, “quando penso al fascismo non mi vengono in mente De Felice o Gentile o Ginzburg, mi viene in mente piuttosto ‘Amarcord’. Quel ritratto è ancora formidabile, la provincia, la mitomania, la frustrazione, l’incapacità di prendersi delle responsabilità. C’è un elemento patologico, ricorrente. Anche la paura dello straniero va ricondotta a queste patologie, alle nostre memorie ancestrali”.

    

“‘Amarcord’, ‘Il federale’, ‘Una giornata particolare’ raccontano con precisione chirurgica come il fascismo sia modellato sul nostro carattere nazionale”, riflette Virzì. Così ecco anche oggi Salvini, “un ragazzone un po’ immaturo bisognoso di successo, di conferme. Che mangia la Nutella proprio perché gli piace, non solo perché glielo dice il suo stratega, Morisi. Allo stesso tempo non ha un progetto politico, non saprebbe da che parte cominciare, per lui va bene tutto, Draghi sì, Draghi no, fuori dall’Europa, dentro l’Europa. Insomma la paura di Salvini mi sembra un po’ ingigantita”.

   

Salvini come stadio finale di uno sviluppo del carattere del mitomane nazionale. E Virzì ha creato uno dei mitomani più belli del cinema italiano, Giancarlo Iacovoni, il maestro inurbato nella grande città, interpretato da Sergio Castellitto in “Caterina va in città” (2003), che strepita per andare al Maurizio Costanzo Show, che è fermamente convinto delle proprie doti intellettuali, mentre tutti gli altri che ce la fanno sono “casta”. Insomma il proto-grillino perfetto. Giancarlo Iacovoni è il Manuel Fantoni libresco, di sinistra, il mitomane col romanzo urgente, il romanzo necessario che non riesce a pubblicare (quanti ne conosciamo). “Oggi quella bolla è un po’ esplosa, mi pare, ma l’antipatia per i privilegiati, il desiderio di vendetta verso le persone in vista, c’è sempre stato”, dice Virzì. “Ho visto tante persone in quegli anni, più o meno dopo il Vaffa-Day, aspiranti cineasti che sbraitavano alle Giornate degli Autori, e che oggi sono al Parlamento europeo”. “Il mitomane vuole essere riconosciuto, si sente escluso, vede tutti alla tv, ma lui no, gli viene la bile.

 

 

 

Da Iacovoni a Iacovacci è un attimo. Oreste Iacovacci era il personaggio di Alberto Sordi nella “Grande guerra”. E “Alberto Sordi l’ho conosciuto, certo. Era già vecchio, avevo scritto per lui una cosa che poi non si è mai fatta, si intitolava ‘La cravatta a farfalla’, era la storia di un anziano avvocatone”. “Lui era un po’ una caricatura, un vero reazionario, ce l’aveva con tutti, con i giovani, con le donne, con gli omosessuali”. “E non lo diceva per provocare, aveva davvero dentro un animo meschino e infantile”. Il giudizio su Sordi non è molto lusinghiero. “Genio ma cane, perché comunque lui è un cane, nei film. Ha la forza animalesca di uomo di spettacolo, ma un po’ scemo”. Per noi Sordi rimane un grande mistero, ci è sempre sembrato che la teoria più solida sia quella di Rodolfo Sonego, il suo sceneggiatore-principe, secondo cui Sordi aveva una forma di pazzia (anche Enrico Vanzina ce la appoggia). Continua Virzì: “Agli inizi, mi raccontava Scarpelli, Sordi faceva cose che tutti gli altri si vergognavano di fare, andava dietro alle vecchiette, gli faceva dei “pussa via”, le spaventava, per strada. E a teatro, sono gli anni del compagnuccio della parrocchietta, il suo numero comico era talmente assurdo che non lo capiva nessuno. Era spudorato, con un’energia incredibile”. Concorda con la teoria di Sonego, che fosse pazzo? “Forse pazzo, con qualche problema di identità, anche sessuale, irrisolta”. Oddio, ma che pure Sordi? (cit).

 

Notti magiche

Salvini come stadio finale di uno sviluppo del carattere del mitomane nazionale. E Virzì ha creato uno dei mitomani più belli del cinema italiano, Giancarlo Iacovoni, il maestro inurbato nella grande città, interpretato da Sergio Castellitto in “Caterina va in città”, che strepita per andare al “Costanzo Show”

Questa Roma fine Ottanta-inizio Novanta, con tutte le leggende in via di sparizione e i miti pronti a trasformarsi in delusione è quella che Virzì poi ha messo in “Notti magiche”, il suo ultimo film da regista, l’anno scorso. Quella dei numi tutelari che cercano interazioni con le giovani promesse, e viceversa. “Andavamo da Otello a via della Concordia, la trattoria dove si radunavano gli ultimi giganti”, ricorda Virzì, “mi portò Scarpelli e alla fine mi dettero pure un attestato di giovane vecchio, proprio una pergamena, che mi consegnò Leo Benvenuti. Io del resto avevo 22 anni ma ero già pelato, cercavo di imitare Scola con delle giacche, il pulloverino e la cravattina, mi piacevano molto i settantenni”. C’era l’imbarazzo della scelta. Erano tutti lì che non chiedevano di meglio. “La malinconia di Mastroianni, che stava sempre dall’avvocato degli attori, Giovanna Cau, a piangere, per questioni sentimentali”. Ma come, era l’uomo più amato d’Italia. “Ma era triste. La Tatò lo faceva soffrire”. “A Fregene, dove Scola aveva casa, Mastroianni si presentava, ‘che dò fastidio? posso stare qua? Vi serve qualcosa?’, modesto, dolce, molto semplice. Mastroianni umarell?!? Non ci si crede.

  

  

E poi Gassman. “Geniale”. Ma depresso, no? “Una depressione magnificamente portata”, dice Virzì. “Poverino, è tanto depresso, dicevano tutti, tutti intorno. Io son convinto che non era vero. Recitava questa parte. Poi una volta a cena mi fa: “Ma te sei accorto che ‘er cinema è ‘na stronzata?”, diceva cose così, era una maniera per difendersi, per non farsi rompere i coglioni”. Non è vero niente! Come Manuel Fantoni, siamo sempre là. A un certo punto a una prima qualcuno gli chiede: come stai? E lui: “eh, sono molto depresso”. E quell’altro: ‘Ah, mannaggia, mi dispiace, io ci ho solo il cancro’”. Sembra che questi mostri sacri si stessero lentamente squagliando mentre il cinema italiano viveva gli ultimi scampoli di grandezza. “Scola invece intimidiva, aveva questa voce, che sembrava un po’ Gassman e un po’ Mastroianni, mischiati. Era inavvicinabile per me, in quanto io seguace di Scarpelli, suo rivale. Poi a un certo punto mi chiamò in un gruppo di giovani sceneggiatori a Fregene, e lì inaspettatamente si metteva a cucinare, cucinava e cucinava, e venne fuori un suo lato molto più simpatico”.

  


Il sunset boulevard del cinema italiano. Rita Rusic che riceveva gli attori e i registi. “Ferie d’agosto” pensato come “una via di mezzo tra Cechov e Vanzina” e che “rifletteva un momento molto più allegro di adesso”. La carica euforica del berlusconismo. Il debole, oggi, per Checco Zalone, “un talento autentico, prodigioso”


   

Il sunset boulevard del cinema italiano. “C’era la consapevolezza che il cinema cominciava ad andare male, e insieme c’erano i produttori che avevano vissuto la stagione d’oro e ragionavano ancora con gli schemi di sempre: ‘Fa ride o nun fa ride? Mettece un pezzo de fica. Mettece un po’ de battute’. Il mio primo film fu venduto come un film erotico, con servizi fotografici di scene che non c’erano nella pellicola. Ancora roba da buco della serratura, quella stagione lì. Sesso e risata, che però erano anche la forza del cinema italiano e la sua libertà”. E’ una fase in cui ognuno tenta nuove strade: “Da Milano calò Berlusconi con le sue guidelines per tornare alla grandezza: grandi attori internazionali, e film tutti girati in inglese, con Micky Rourke che faceva San Francesco della Cavani”. Lo star system applicato al neorealismo. Poi c’erano altre ibridazioni.

 

Cecchi Gori

Primi anni Novanta: “C’era la consapevolezza che il cinema cominciava ad andare male… Il mio primo film fu venduto come un film erotico, con servizi fotografici di scene che non c’erano nella pellicola. Ancora roba da buco della serratura. Sesso e risata, che però erano anche la forza del cinema italiano e la sua libertà”

“A Monte Mario sorgeva il palazzo Cecchi Gori: sembrava un enorme ufficio postale, arredato con le scenografie di Fantozzi del megadirettore naturale, i ficus, gli ottoni. C’era la moglie, Rita Rusic, che riceveva gli attori e i registi. Mi ricordo che aveva una foto incorniciata di Nanni Moretti, mi ha sempre colpito, forse la cambiava a seconda dell’interlocutore. Mentre le pitchavi – come si dice oggi – una storia, aveva ai suoi piedi uno che le faceva la pedicure, con la bacinella, poi entravano degli assistenti con dei vassoi su cui erano disposti degli orologi d’oro, e lei diceva questo sì, questo no. Di scatto ogni tanto si apriva la porta e spuntava Vittorio, che, si dice, era ossessionato dalla gelosia. Lei come produttrice era molto attenta, molto presente. Lei e la sorella le chiamavamo ‘le sorelle Lumière’, leggevano con dedizione i copioni, ed era strano vedere queste ragazze con questa fisicità da Baywatch, e dover spiegare loro la tua storia. Erano molto attente soprattutto ai cast. ‘Ah, ma sei sicuro che questa ci scoperebbe con questo?’. Me lo chiesero anche per ‘Ferie d’agosto’, per Silvio Orlando con Laura Morante. ‘Ma lui è troppo brutto, lei non ci scoperebbe mai nella realtà’, dissero. Io provavo a spiegare che era interessante proprio per questo, era buffo, lei nel film gli dice ‘sei bellissimo’, ma loro erano fissate con questa cosa dell’estetica, a prendevano molto sul serio”.

  

Virzì era stato convocato nel palazzone di Monte Mario dopo il successo del primo film, “La bella vita” (1993), “e allora vado da quella che era la major italiana dell’epoca, la Cecchi Gori appunto, che faceva i grandi successi, i Fantozzi, e i Vanzina, per dire”. Con l’idea per “Ferie d’agosto”, impacchettata da “qualcosa che loro potessero riconoscere, una commedia di villeggiatura, con attori in costume da bagno, romani che dicono battute in romano, ma dentro provo a metterci delle cose più serie. Io ho sempre messo in atto un patto coi produttori e con gli spettatori: io ti faccio ridere, ti racconto una cosa divertente, però poi ti faccio vedere anche un’altra cosa che mi sta a cuore”.

  

“Ferie d’agosto io me la spiegavo come una via di mezzo tra Cechov e Vanzina, anche se la parola ‘Cechov’ non osai dirla a Rita Rusic”. “Poi quando c’è stata la separazione lei è rimasta nel palazzo di Monte Mario e lui si è spostato a palazzo Borghese, con delle fidanzate improbabili. E lì, un’aria un po’ da Salò, lui sempre in pigiama, arrivavano delle modelle su degli aerei privati da Londra, e lui invitava un po’ di giovani, io, Giovanni Veronesi, Pieraccioni, e diceva: su su ragazzi, ma noi eravamo imbarazzatissimi, anche perché queste erano bellissime. Mettetevi homodi!, diceva lui, e si accasciava regolarmente su qualche divano, come svenuto. Allora anche i domestici, stanchi, si sdraiavano e si toglievano le scarpe, e guardavano la tv fumando uno dei suoi sigari, in un momento di decadenza assoluta tra quegli stucchi dorati”.

 

    

“Ferie d’agosto” e i talk-show

E comunque Cecchi Gori ha reso possibile la frase che andrebbe messa nello statuto del Pd. O anche delle sardine. “La verità è che non ce state a capi’ più un cazzo, ma da mò!’”. Praticamente un manifesto politico. Si torna così al punto essenziale. A quella commedia dei Maestri che sdrammatizzava e fustigava, che assolveva e condannava; si torna al racconto di un paese sfilacciato, alla sua parata di tipi umani buttati dentro situazioni sempre gravi, mai serie. I Mazzalupi, negozianti romani, zona San Giovanni, che appena entrati nella casa affittata per le vacanze si fiondano sul tetto per vedere se funziona l’antenna del televisore. E i Molino, intellettuali, portatori di coscienza civile con famiglia allargata ad amici, attori disoccupati, lesbiche milanesi e post-fricchettoni che organizzano “workshop nel terzo mondo” e che in vacanza non vogliono neanche la luce elettrica. Siamo a Ventotene, nella scintillante “Italia del maggioritario” uscita fuori dalle elezioni politiche del 1994. Uno spartiacque che solo il tempismo della commedia poteva raccontare. “Ferie d’agosto rifletteva un momento molto più allegro di adesso”, dice subito Virzì, “perché l’arrivo sulla scena del berlusconismo ci lasciò tutti spiazzati per quella sua sgangherata carica euforica. Non sembrava possibile, tutto era davvero così improbabile, incredibile. A differenza dell’altrettanto incredibile vittoria di Trump, Berlusconi poi non era per niente rabbioso. La discesa in campo liberava invece molti italiani dal senso di colpa. Gli italiani che guardavano Italia Uno e Rete 4, che amavano il karaoke, e che poi erano semplicemente gli italiani di sempre, si sentivano finalmente liberi di uscire da quei partiti tradizionali in cui avevano dovuto mimetizzarsi magari per anni. Ora avevano un’offerta politica che li riguardava e che effettivamente sembrava ricalcata su di loro. Era difficile ammetterlo, ma c’era in quell’operazione un’energia, un’euforia, una carica in fondo anche libertaria che non capivamo”.

     

Un’Italia divisa in tribù. Come in “Selvaggi” dei Vanzina, uscito giusto un anno prima. L’anno della “svolta di Fiuggi” e dello scioglimento dell’Msi. Tutto in effetti sembrava così “post”. “Destra e sinistra non ci sono più”, dice il ragazzo della tribù dei Molino, grossomodo coetaneo di Alessandro Di Battista che all’epoca (1996) compiva diciott’anni. Recensendo “Ferie d’agosto” su Repubblica, a proposito di una scena con falò e schitarrate, Irene Bignardi si domandava: “Ma davvero si canta ancora Bella Ciao a sinistra?” Sappiamo com’è andata. Aveva ragione Virzì. Visto da sinistra il film raccontava tic e stereotipi di chi sente il peso di stare dalla parte giusta delle cose. Destra e sinistra sostituite da un’Italia cafona e fracassona da una parte, e una snob, ombrosa, un po’ triste, dall’altra. L’Unità scriveva che il film metteva in scena “una sinistra che rischia di retrocedere a élite intellettuale e una destra ruvida e godereccia”. “A pensarci bene,” diceva invece Silvio Orlando, “Ferie d’agosto è un film sull’impossibilità di andare in vacanza, soprattutto per noi di sinistra”. Però era difficile non volere un po’ di bene ai Mazzalupi che avevano il faccione malinconico di Piero Natoli, la follia di Fantastichini, la burinaggine tenera di Sabrina Ferilli. “Per quelli come me che pure avevano subito una batosta politica” dice Virzì, “non era impossibile trovare un’empatia con i Mazzalupi. C’erano questi tipi che dicevano, me conzenta e ’nattimino, ma non erano visti come il nemico, o almeno per me era impossibile vederli come il nemico”.

 

  

E adesso? “Adesso la situazione è un po’ cambiata perché c’è molta rabbia, c’è un discorso pubblico incattivito, violento, che non può essere imputato solo a Salvini, anche se ovviamente chi occupa la scena politica ha una grande responsabilità”. Ma quindi da dove si parte per quel remake di “Ferie d’agosto” che avremmo già proposto a Valsecchi (siamo venuti qui anche per strappare un accordo amichevole sui diritti)? “Aggiornare ‘Ferie d’agosto’ vorrebbe dire dover essere molto più brutali di allora. Ed è complicato, specie in una commedia. Laddove c’era una conflittualità in fondo anche risibile, oggi tutto mi appare più feroce. Sarebbe difficile per me provare l’empatia di allora verso i nuovi Mazzalupi. Perché anche quando racconti una testa di cazzo devi sentire sempre il bisogno di provare a capirla, di non stigmatizzarla, la devi raccontare con un briciolo di compassione, di vicinanza.

   

Virzì cita Gianni Pilo, ex mago dei sondaggi che con la sua Diakron predisse la vittoria del Cav., collaboratore e consigliere fidato di Silvio Berlusconi, stratega della discesa in campo, supremo analista delle intenzioni di voto degli italiani travolti dalla mutazione antropologico-elettorale di metà anni Novanta, all’epoca onnipresente in video. Nei talk-show Pilo ripeteva ossessivamente il suo cavallo di battaglia: “Quarant’anni di malgoverno e consociativismo”. Puntualmente Virzì e Bruni (sceneggiatore del film) lo infilano nelle tirate politiche di Fantastichini. “La parola ‘consociativismo’ non era mai stata usata, ma ci divertivamo a vedere questo cortocircuito tra lo show della politica e il linguaggio delle persone comuni (si vede la scuola Scarpelli, a spasso per la Tuscolana; “allora c’era questa idea di raccontare i palpiti delle classi popolari, come una volta si raccontavano i gran borghesi. Strazi, avventure, amori, delle classi popolari, con un lavoro sulla lingua, sui dialoghi”, altra grandezza della commedia all’italiana.

  

“Oggi invece i talk non riesco più a guardarli”, continua Virzì. “Mi mettono troppa angoscia, a cominciare da tutti quegli applausi compulsivi che partono dopo ogni mezza frase”. D’altronde anche Gianni Pilo ha cambiato lavoro. Ora si occupa di intelligenza artificiale. Anche lui quando in tv vede i suoi ex colleghi cambia canale: “Quei sondaggi lì oggi sono inutili”, ha detto. Difficile dargli torto. Certo i Molino pure sono cambiati. “Si nutrivano di cultura libresca, di carta, di giornali, anche per contrapporsi al mondo di quelli che guardano la televisione, lui era un editorialista dell’Unità (e all’Unità non la presero bene). I Molino oggi guarderanno “Fleabag” e “Breaking Bad”. “Comunque mi chiedono in continuazione di rifare ‘Ferie d’agosto’ e io ogni tanto cedo, mi metto lì, apro un file, scrivo. Poi lo richiudo e non ne faccio mai niente, la uso come una specie di meditazione. E meno male”.

 

Checco Zalone

“Oggi tutto mi appare più feroce. Sarebbe difficile per me provare l’empatia di allora verso i nuovi Mazzalupi. Perché anche quando racconti una testa di cazzo devi sentire sempre il bisogno di provare a capirla, di non stigmatizzarla, la devi raccontare con un briciolo di compassione, di vicinanza”

Questo non vuol dire che sia impossibile raccontare l’Italia di oggi o una realtà (politica, sociale, culturale) certo sfuggente e già caricaturale, grottesca, iperbolica. Ma Virzì non cede al vecchio adagio per cui ormai i politici rubano il mestiere a comici e scrittori. Funziona casomai come alibi per l’afasia narrativa, la mancanza di idee, di talento. “Tant’è vero che sulla realtà italiana di questi anni, Luca Medici, cioè Checco Zalone, fa delle cose esilaranti”, dice Virzì. “Immigrato hai lasciato il porto spalancato”, per esempio, dalla canzone che accompagna l’uscita di “Tolo, Tolo”, film ideato e scritto da Zalone con Paolo Virzì. Si conoscono in aeroporto, qualche anno fa. “Ci presentò Valsecchi. Io ero andato non mi ricordo dove, lui era andato a ritirare un premio a Montecarlo. Mi pare fossimo a Nizza. Mi ricordo che Valsecchi lo chiamava Checco Zalone e lui mi diceva all’orecchio ‘solo lui mi chiama così, mi chiamo Luca Medici’. Ci siamo scambiati il numero di telefono, e abbiamo iniziato a sentirci di tanto in tanto; poi un giorno mi ha chiesto se avevo una storia per fare una cosa insieme e in effetti ce l’avevo”. Qualche giorno dopo Zalone è in ufficio da Virzì. Il progetto gli piace. Potrebbe essere un film di Virzì con Checco Zalone. Ma man mano che ci lavorano Zalone si entusiasma, porta nuove idee e canzoni e gag e piano piano, dice Virzì, “diventa un film suo”. Così Virzì lo incoraggia a fare anche la regia, ma non c’è stato alcun dissidio su questo, anzi. “E’ impossibile litigare con lui”, dice Virzì, “in più ha anche due genitori fantastici che ogni tanto lo accompagnavano a Roma e portavano un’infinità di burrate e pasta fresca e formaggi vari”.

  

“Io che nasco come autore di scenette per i comici ho un debole per Checco Zalone, un talento autentico, prodigioso”. Virzì non ha dubbi: “Il film vi spiazzerà, è un film coraggioso, nettamente antifascista”, e c’è anche un cameo di Nichi Vendola. La canzone di cui si è discusso in questi giorni ovviamente non c’entra nulla, nel senso che nel film non c’è e rende ancora più surreali le polemiche che ha innescato. “Una canzone che prende per il culo un omino ossessionato dagli immigrati, bruttino, vestito male, col piumino smanicato, una canzone che prende per il culo le sue ossessioni. Non era difficile da capire. Eppure mi capitò la stessa cosa già con Iacovoni in ‘Caterina va in città’. Mi toccava spiegare che noi non condividevamo quel punto di vista, che anzi era un personaggio un po’ patetico, e insomma è l’abc della drammaturgia, e doverlo giustificare è quasi peggio che spiegare le barzellette”. Ma del resto il pubblico tende a confondere sempre la satira con la cronaca”. Da mò.

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