Lewis Pugh fa il bagno nel Mar Glaciale Artico (LaPresse)

Un sogno in bianco

Gaia Manzini

A piedi, in aereo oppure pattinando. In viaggio fino al Polo Sud. La ricerca del vuoto e dei suoi silenzi è la più intima necessità dello scrittore

"Non sono del tutto soddisfatta del livello di bianco nella mia vita. La mia camera da letto è bianca: bianchi i muri, specchi color ghiaccio, bianche le lenzuola e le federe, bianche le veneziane. Più di così non ho potuto. (…) Bianco a ripetizione, se sollevo appena gli occhi fino allo specchio di fronte. Momenti d’indescrivibile gioia, la mattina. Dopo, sarò costretta ad ammettere i colori nella mia giornata, ma per un po’ posso crogiolarmi in un’immensa e all’apparenza sconfinata distesa di bianco”. Inizia così il romanzo di Jenny Diski, Pattinando in Antartide, già uscito in Italia nel 1998 e ora ripubblicato da NN editore in una nuova traduzione di Fabio Cremonesi. Inizia dal bianco.

 

Jenny è in cerca di risposte sulla propria identità, sul proprio rapporto con Doris Lessing, sulla vera natura dei sentimenti che le legano

Jenny Diski l’avevamo già incontrata malata, ad affilare le armi narrative per dire della malattia, di quel cancro che la ucciderà, e intanto raccontare la perdita delle persone a lei vicine, a partire da Doris Lessing, la grande scrittrice inglese, divenuta nel 1963 sua madre affidataria. In gratitudine era un memoir. Eccola la giovane Jenny, in piedi, sulla soglia di una casa in Charrington Street. E’ stato Peter, il figlio di Doris Lessing, a portarla lì. Jenny ha quindici anni, è un adolescente ribelle, è stata espulsa da scuola, ha tentato il suicidio e ha passato un po’ di tempo in un ospedale psichiatrico. E’ Lessing ad accoglierla: il loro non sarà mai un rapporto facile. Jenny che nessuno vuole, che viene respinta anche dai genitori, che giovanissima si ritrova intorno a un tavolo insieme a una futura premio Nobel, a Ted Hughes e Alan Sillitoe; che cerca di carpire i segreti del mestiere di scrittore e salvarsi dal destino di ragazza sbandata; Jenny che è in cerca di risposte su se stessa, sulla propria identità, sul proprio rapporto con Doris Lessing, sulla vera natura dei sentimenti che le legano. 

 

Pattinando in Antartide è un libro precedente, ma nasce dalla stessa urgenza di indagare il passato. Nel passato di Jenny Diski c’è stato per moltissimo tempo il desiderio del bianco, del bianco assoluto che si associa all’idea di essere ricoverata in un ospedale psichiatrico. Quando Diski aveva ventuno anni il Centro di igiene mentale Maudsley a Londra era diventato il suo ambiente preferito. Le sembrava che le bianche lenzuola dell’ospedale potessero offrirle quel che voleva: un rifugio sicuro, un candido oblio. Ciò che cercava era l’oblio in senso stretto, ma le lenzuola erano una buona approssimazione.

 

Il ghiaccio dell’Antartide, estensione iperbolica di una pista da pattinaggio, ha lo stesso significato della neve per Robert Walser

Eppure il desiderio del bianco non è solo qualcosa che c’entra con gli ospedali, è anche qualcosa di estremamente letterario. Torna in mente il grande scrittore svizzero Robert Walser (1878-1956). Autore amatissimo da Kafka, Canetti, Benjamin. Citato e celebrato, ma del tutto insensibile alla fama. Walser, in modo più estremo di Jenny Diski, aveva un unico interesse: dissolversi. C’è una foto che lo ritrae ragazzo. Certo, è ben vestito, ma c’è in lui un che di dimesso: nella postura innanzitutto, che è anche postura mentale. La schiena è curva, il collo sbuca dalla camicia, così che sembra stia facendo un inchino. Robert Walser odiava qualsiasi forma di vanagloria e fin da subito rinunciò a ogni desiderio di grandezza. Ridimensionava se stesso di continuo, con ostinazione. Cercava solo lavori umili: impiegato, assistente, segretario, cameriere. Perché sapeva che in un agire ristretto si nasconde la libertà, e si trova un senso più grande. Aveva la ferma volontà di non essere nessuno. C’era il perseguimento inesausto di una fuga dal mondo. Cambiava, Walser, continuamente indirizzo e mestiere: era come se volesse scomparire, far perdere le proprie tracce per sentirsi “un’entità sperduta e dimenticata nell’immensità della vita”. Non so se in Jenny Diski ci sia lo stesso esercizio di modestia, sicuramente c’è la stessa voglia di andare, di dissolversi su uno sfondo ancora da mettere a fuoco. Nell’ultimo periodo della sua attività, Walser prese a scrivere con una grafia sempre più piccola, quasi indecifrabile. Invece che la penna usava la matita: il lapis era molto più vicino all’idea di evanescenza rispetto all’inchiostro. Scriveva su ricevute, telegrammi, tutt’intorno ai bordi dei libri, quasi che le sue parole dovessero essere sempre essere subordinate ad altro. Sono i famosi microgrammi walseriani. Nel 1933, venne trasferito nel sanatorio di Herisau. E qui c’è il cortocircuito con gli ospedali psichiatrici di Jenny Diski. A cinquantacinque anni Walser non scrive più, ma cammina. Cammina tutto il giorno, non fa altro. Il pomeriggio di Natale del 1956, Walser esce dal manicomio, è da solo, indossa una giacca. Con passo sicuro si dirige verso alle colline per la consueta escursione. Poche ore dopo cade senza vita nel mezzo di una distesa innevata, un’immensa tabula rasa. Cade assorbito dal bianco, in un luogo libero dalla sofferenza, di pura felicità.

 

La Jenny Diski di Pattinando in Antartide vorrebbe evitare il pensiero della sua infanzia e adolescenza infelici. Non si chiede neanche se sua madre sia morta, non le interessa, anche dopo molti anni. Là è racchiuso il senso di un dolore mai sopito, di un’indifferenza alla vita, di una depressione sempre in agguato. Solo il bianco sembra calmarla. E’ così che nasce l’idea dell’Antartide, il desiderio del ghiaccio, estensione iperbolica di una pista da pattinaggio dove si allenava da bambina con la sensazione di prendere il volo a ogni passo. E’ come la neve per Walser. Ma anche la nebbia bianco latte dove si dissolve la voglia di esistere dell’avvocato Edgardo Limentani, il protagonista dell’Airone (1968) strepitoso romanzo di Giorgio Bassani. Il bianco, ancora il bianco tra le pagine dei libri.

 

  

L’Antartide per la protagonista diventa un desiderio imperioso quanto una pulsione sessuale. “L’Antartide era quello che volevo, quindi dovevo averla. Non avevo mai vagheggiato l’Antartide, né avevo desiderato andarci in modo particolare ma ora il pensiero era potentissimo, il sogno di una vita. Forse è possibile vivere in modo retroattivo i sogni di una vita. Come una pulsione sessuale, il sogno era inopportuno; obbligava a prendere delle iniziative, a sottrarre tempo alla regolarità di una vita di studio, a viaggiare… cosa che detesto”. In fin dei conti questo memoir è un libro di viaggio.

 

E questo desiderio di bianco è il centro potente e letterario del libro, quello che chiama a sé ogni possibile cortocircuito.

 

Erling Kagge e il silenzio al Polo Sud. Laggiù tutto è così uniformemente bianco da trasformarsi in una tabula rasa

Qualche anno fa Erling Kagge, primo uomo a raggiungere il Polo Sud in solitaria e primo a raggiungere i “tre poli” (Polo Nord, Polo Sud e una cima dell’Everest), ha scritto un saggio: Il silenzio (Einaudi Stile Libero). Il libro compie un percorso alla scoperta di un’intima necessità che sta acquattata dentro a ognuno di noi. Ognuno soddisfa il proprio bisogno di silenzio nei modi più diversi: andando in biblioteca, rimanendo seduti in chiesa, godendosi la visita a un museo. Kagge parla della sua esperienza al Polo Sud. “L’Antartide è il luogo più silenzioso in cui sia mai stato. Sono andato da solo al Polo Sud, e in quel paesaggio monotono che si stendeva davanti a me a perdita d’occhio non si udivano altri rumori umani se non i miei. Da solo, sul ghiaccio, circondato da un grande nulla bianco, riuscivo a sentire e a percepire il silenzio”. Laggiù tutto era così uniformemente bianco da trasformarsi in una tabula rasa. Un intero continente diventava “uno stato della fantasia”. Il deserto, il mare, le vette. Nel suo Elogia della fuga, il filosofo Henri Laborit spiega quanto sia necessario andarsene, allontanarsi dalle costrizioni sociali per ritrovarsi in modo più autentico. Enrique Vila-Matas, grande scrittore spagnolo, nel suo Dottor Pasavento parla del mito della scomparsa, spesso identificato con alcuni luoghi simbolici come la Patagonia. In un passo racconta come per avanzare sia necessario rinunciare ad avanzare. Andarsene, svincolarsi dai condizionamenti. E quindi ritrovarsi in una situazione totalizzante di solitudine, silenzio, e libertà.

 

Nel silenzio c’è qualcosa simile a una perla, direbbe Kagge. C’è l’inesprimibile. Se le parole a volte distruggono l’incanto, nel non detto si aprono nuovi impensabili orizzonti.

 

E’ in parte ciò che succede alla protagonista di Pattinando in Antartide. Perché a quello verso il Polo Sud, corrisponde un viaggio all’indietro nel tempo, un riscrivere nella mente la vita passata aggiungendo sempre nuovi particolari. Un padre e una madre distrutti dai continui litigi, dalla rabbia reciproca, dalla povertà improvvisa, fino allo sfratto e al pignoramento dei beni. Un padre e una madre incapaci di amare, di farlo fino in fondo. Alcol, gioco, abbandono, rabbia, droga, disperazione. I tentativi di suicidio come tratto comune dei componenti di una famiglia che da un certo punto in poi non è più stata una famiglia. Per un po’ è stato possibile alla protagonista non indagare troppo a fondo, non sapere davvero tutto: ciò che non si conosceva non poteva provocare dolore. Invece durante il viaggio sovvengono altri dettagli inquietanti, forse rimossi. E poi tutte le domande, gli interrogativi terribili: che futuro può sognare una ragazza con genitori del genere? Davanti a persone così compromesse anche i ricordi d’affetto assomigliano a violenze? Chi erano davvero mia madre e mio padre? E’ come se il passato contenesse solo trappole, meglio desiderare il nulla, il nulla totale che calma la mente, placa i pensieri. Cammina nel bianco candido della neve anche Dubin, personaggio di Bernard Malamud (tra i più grandi scrittori americani). Dubin si avventura fino al confine col Vermont, dopo aver scritto tutto il giorno. Così cambia il paesaggio della mente dopo un’intera giornata di lavoro e ritrova la coscienza di sé. Nel suo camminare c’è non solo il contatto con la dimensione selvaggia, ma anche con un andare più quotidiano; la vita con le sue spinte contrapposte. L’atto stesso di camminare vive di una contraddizione: ogni passo è una piccola perdita di equilibrio.

 

Il bianco spaventa, è un vuoto intollerabile, ma come suggerisce Herman Melville, c’è la sensazione che l’assenza sia tutto

Cambiare il paesaggio della mente: Jenny Diski di sua madre non ha neanche una foto, non c’è una sola testimonianza del suo passato, nessuna prova oggettiva, solo le istantanee inaffidabili dei suoi ricordi. “Non avevo progettato questa crociera come una sorta di pellegrinaggio, solo come una promettente incursione nel bianco. I miei motivi erano indistinti come il territorio che desideravo esplorare. Ero animata dal semplice desiderio irrazionale di trovarmi in capo al mondo, in una terra di ghiacci e neve”. Prima di riscrivere la nostra vita, è necessario fare spazio. La protagonista del libro viaggia con Moby Dick, viaggia leggendo della bianchezza della balena. Che è assenza di ogni colore e amalgama di tutti i colori allo tempo stesso. Il bianco spaventa, è un vuoto intollerabile, ma come suggerisce Melville, c’è la sensazione che l’assenza sia tutto. Il colore è luce e rende il mondo vivibile, ma di tanto in tanto è necessario entrare nella vuota realtà, per capire come sono davvero le cose. “La depressione non fa star bene, è un’angoscia di cui faccio volentieri a meno. Ma lo spasmodico desiderio del vuoto si può placare, forse, in altri modi. Pareti bianche, fissare paesaggi disabitati, dirigersi verso luoghi di nevi e di ghiacci. Non per rimanere, ma per starci giusto un po’. Certo, la morte, come Melville sa bene, è quel che è. Trastullarsi con il vuoto che alla fine si trastulla con noi. Di fronte all’attesa di ciò che non posso evitare, mi dirigo senza esitazioni verso la sua immagine e mi fermo per un po’”.

 

E poi eccola finalmente al Polo Sud, Jenny Diski, tra corridoi di iceberg che appaiono come spettrali edifici, sogni di qualcosa di mai visto. Il Polo Sud che è un paesaggio marino destinato a cambiare, e al contempo a rimanere uguale, solo con le sue componenti rimescolate, quando il ghiaccio avrebbe preso a sciogliersi e a spostarsi. Un luogo di sogno nel quale lo sciogliersi e lo spostarsi sembrano solo accrescere l’immutabilità. Un luogo dove nulla rimane uguale, però nulla cambia.

 

E’ lì che Jenny continua a leggere Moby Dick proseguendo con Achab la ricerca della grande balena bianca. Che meraviglia! Imponente, enorme e libera.

 

La morte di una madre terribile non fa nessun effetto. Diski al Polo Sud è arrivata nel luogo giusto dove celebrare in modo letterario una specie di gioia distaccata dal mondo. Il desiderio del bianco. La sensazione di essere irraggiungibile, in un angolo di mondo senza dolore, candido e pieno di silenzio che canta. Un posto che assomiglia a una pagina: il posto giusto dove riscrivere in libertà e solitudine la propria storia.

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