Michel Houellebecq. Foto di Silvina Frydlewsky / Ministerio de Cultura de la Nación

Michel Houellebecq, ce n'est pas un cahier de doléances

Davide D'Alessandro

C’è tutto lo scrittore francese nell’ultimo libro edito da “La nave di Teseo”, ma non è un taccuino di lamentele. Lo si può conoscere e afferrare meglio attraverso molteplici testimonianze che raccontano l’uomo e l’artista

Michel Houellebecq è davvero “inafferrabile, inclassificabile, irriducibilmente ambiguo”, come recita la presentazione del libro Cahier, a cura di Agathe Novak-Lechevalier, edito in Francia nel 2017, e ora in Italia da “La nave di Teseo”, per la traduzione di Fabrizio Ascari, oppure è meno sfuggente di quanto sembri e, attraverso molteplici letture di scrittori, artisti, musicisti, amici e nemici, è possibile raggiungerlo, persino individuarlo e toccarlo nel suo nucleo più profondo?

Non c’è che da leggere per restare ammirati da tante prospettive diverse, da un’analisi prismatica di un autore formidabile capace ormai di far parlare di sé non dopo aver scritto un libro, ma prima, poiché ci si aspetta ciò che non è stato ancora detto, scoperto, afferrato. I tanti profili di una costellazione inquieta restituiscono il tratto esemplare di uno scrittore poligrafo. Scrive il curatore: “Houellebecq esplora tutti i generi: poesia, romanzo, saggio, ma moltiplica anche le fughe dal campo letterario: nel cinema, dietro e davanti la cinepresa; nella musica – che si improvvisi cantante o che i suoi testi diano luogo ad adattamenti (da Iggy Pop a Jean-Louis Aubert, entrambi presenti in questo volume), nell’arte – anche qui come artista a tutti gli effetti o come oggetto d’ispirazione. Questa disseminazione, che può produrre un effetto di saturazione (anche nel senso musicale del termine è il lato rock di Michel Houellebecq), suscita soprattutto una impressione di ubiquità permanente. Si potrebbero interpretare come la traccia di questa divisione dell’Io i quadri dell’artista Mathieu Malouf, che fanno dello scrittore una sorta di icona warholiana rappresentandolo in una esplosione di colori e in una prospettiva seriale”.

È appassionante il racconto dell’autore e sull’autore prima del 1991, i giorni e gli anni degli inizi, poi Houellebecq poeta, poi quello delle riviste, poi il romanziere, poi l’internazionale, poi quello dalla A alla Z, per approdare a quello del cinema, della musica, dell’arte, per dire che è in un luogo e dappertutto; ovunque si respiri intelligenza, cultura, gemme di pensiero, intuizioni fantasmatiche e reali, lui c’è. Con la sua forza espressiva, con la sua lama che affonda non nel morbido ma nel duro, nel roccioso, dei nostri anni sciagurati. Sentite Michel Onfray: “Un compagno di strada in qualità di lettura tragica del mondo, di sismografo della noia e della sofferenza, di pietà per gli animali, di salvezza tramite la contemplazione estetica e di sesso tristo non ha vocazione ad altro che all’assoluta singolarità – e chi non direbbe che Mchel Houellebecq non sia nei nostri tempi nichilistici l’assoluta singolarità? Uno specchio del nichilismo, ma uno specchio impareggiabile”. E Julian Barnes: “Piattaforma, romanzo nutrito più di opinioni, di soliloqui e di momenti provocatori che di vera narrazione, fa venire troppo spesso in mente al lettore simili dubbi e interrogativi. Il sesso, l’amore, i musulmani, l’umanità sono davvero così? È Michel a essere depresso o il mondo a essere deprimente? Camus, che ha debuttato creando, con il suo Meursault, uno dei personaggi più distaccati e indifferenti del romanzo del dopoguerra, è morto mentre scriveva Il primo uomo, nel quale vite ordinarie sono dipinte con la più ricca osservazione e simpatia. Sembra meno probabile che Houellebecq riesca un giorno a superare il peccato di disperazione”. E Antonio Scurati: “Sottomissione, in realtà, è una satira. Il comico si placa ma non scompare, il tragico si mostra ma non trionfa. Houellebecq non rinuncia al ridicolo nella sua descrizione dei fatti e delle persone, non abbandona la denuncia corrosiva, la ricerca del paradossale e del distacco surrealista che apre piste di riflessione morale, non trascura l’ironia e il sarcasmo che minano ogni autorità superiore, non cessa di oscillare tra sacro e profano. In una parola, Houellebecq rimane fedele a sé stesso, a noi. E noi – non raccontiamoci storie -, noi europei di questo nuovo millennio, noi siamo lo spirito del nichilismo”.

E Houellebecq che cosa dice di sé? Mi è parso di cogliere in due voci, tra le tante, parte della sua sostanza. In Depressione, quando scrive: “Nella schiatta degli autori depressi, sono certamente quello per il quale la depressione si è più banalizzata. In Beckett ho l’impressione che ci sia ancora una certa nobiltà della depressione che ha generato certi gesti patetici come distribuire l’ammontare del suo premio Nobel ai barboni. In me è la situazione normale dell’animale frustrato, che si deprime, che si mette in fondo alla sua gabbia, che si gratta… Non è nemmeno un tema, è un fondale che, del resto, uso soprattutto per il narratore. Il vantaggio è che spesso i depressi sono estremamente divertenti. Per avere uno sguardo umoristico e lucido sul mondo non c’è niente di meglio di un buon depresso. Sono molto attaccato al personaggio del narratore depresso”. E in Nulla, dove confessa: “Il nulla non è kitsch. È uno dei problemi del rifiuto del kitsch, del resto si apprezza soltanto il nulla. È vero che il mio narratore tipico è spesso nella posizione di uno slalomista tra buche di nulla. E stranamente non cade. Concretamente, nella vita, me la cavo abbastanza bene con il nulla. Lo padroneggio bene, non mi fa paura. Sono bravo a evitare zone di nulla”.

Noi dobbiamo esseri bravi, oltre a evitare zone di nulla, a non evitare zone di Houellebecq. Tanto ci ha detto, tanto continuerà a dirci. Con una poesia, con un romanzo, con un saggio, con una intervista, con uno sguardo perduto. Il suo sguardo, in questi anni, è stato il nostro; la sua inquietudine, la nostra. E stranamente non cadiamo. Barcolliamo, ma siamo ancora in piedi.