Una macchina da scrivere dell’americana Underwood Typewriter Company, poi acquistata dalla concorrente italiana Olivetti negli anni Sessanta

Pantarèi, per esempio

Matteo Marchesini

La metaletteratura di Ezio Sinigaglia, che torna con le nostre domande sul romanzo, sull’eros, e su tutti gli innumerevoli tentativi di rinnovarli

In Italia più che altrove, postmoderno fa rima con riflusso. Negli anni Ottanta, mentre la narrativa risorge artificialmente per ragioni industriali, i sofismi teorici dei decenni precedenti si rovesciano in un affabile strutturalismo di massa. Inaugurano l’epoca i nomi delle rose, i lettori e le lettrici che viaggiano in una notte ipotetica d’inverno; e la rappresentano poi il giovanilismo dei “casi” editoriali, le passeggiate nei boschi e nei loft narrativi degli allievi di Eco e di Calvino. Sul far del crepuscolo novecentesco, la Nottola di Minerva non ha l’aspetto di un filosofo o di uno scrittore tormentato dalle aporie del secolo, ma quello di un conferenziere giocondo o di un personaggio pop. Chi media in modo più onesto tra esigenze di leggibilità, esprit de géométrie e confronto con una cultura ormai rarefatta, disegna spesso scenari da pittura metafisica o da realismo magico 2.0. Sagome senza volto si sporgono dalle finestre di palazzi deserti, in metropoli asettiche e lunari: è l’Italia di Giuseppe Pontiggia. Epigono della narrativa che gioca a scacchi con sé stessa, anche Pontiggia, come Calvino, sa trovare compromessi dignitosi col suo tempo grazie a un’ammirevole sapienza artigiana. In entrambi, però, la limpidezza è incatenata a un pudore che costa un’eccessiva reticenza esistenziale. S’immagini invece un erede che ha la loro agile eleganza, un erede che pure considera il mondo un alfabeto da scomporre e ricomporre come l’insegna del Cognac in un famoso racconto calviniano, ma che tuttavia, mentre riepiloga il Novecento in forme tascabili, lascia intravedere una ferita aperta sui territori meno addomesticabili dell’eros. Si pensi a un atticista che sia anche un pasticheur, a un giocoliere della lingua un po’ folletto e un po’ picaro, che rende palpabili le geometrie astratte e aereo il carnevalesco; o al contrario, se si preferisce, a un Busi e a un Tondelli paradossalmente discreti, a una figura anche stilisticamente bisessuale. Così nel 1985, a trentasette anni, fa capolino dal palazzo della letteratura italiana Ezio Sinigaglia, coetaneo degli ultimi autori che hanno mantenuto un rapporto consapevole con la tradizione, e che proprio per questo hanno esordito già maturi (i Busi, i Siti, i Fiori, i Cavazzoni…). Con lui spunta il suo alter ego Daniele Stern, protagonista del “Pantarèi” oggi ripubblicato dalle edizioni Terrarossa.

 

Nel 1985 fa capolino dal palazzo della letteratura italiana Ezio Sinigaglia e il suo alter ego Daniele Stern, “stella” in tedesco

“Stern” in tedesco significa stella: nome emblematico, per un libro notturno in cui, come hanno fatto da poco Calvino e Primo Levi, si parla tempestivamente dei buchi neri; ma anche nome uguale, nella pronuncia, a quello di Laurence Sterne, il maestro delle digressioni romanzesche al quale molti tornano a chiedere consiglio dopo la crisi di una narrazione tutta risolta in plot. “Un romanzo, era questo che avevo in mente, scrivere un romanzo”, ma purtroppo “Il romanzo era morto”: così si spiega nella prefazione Sinigaglia, e già sentiamo il tono del metaromanzo che segue. Perché da questa sensazione di stallo, che i nuovi narratori sottomessi agli editor vogliono rimuovere, lui trae un libro che riflette su sé stesso senza rinunciare alle risorse della narrativa più godibile. Il suo eclettico romanzo “meta” è anche un romanzo a metà.

 

In tondo sono stampate le vicende di Stern, freelance che campa di collaborazioni editoriali, e che nel giro di una settimana deve inventarsi un capitolo sul romanzo del Novecento per una “enciclopedia della donna”; in corsivo le schede scritte per questa enciclopedia con una lucidità pari alla furia, e alternate via via al racconto. Sinigaglia osserva che il “Il Pantarèi” è divenuto presto un romanzo storico. Stern è l’ultimo giapponese del lavoro culturale bianciardianamente umiliante, ma anche scrupoloso e almeno un po’ pagato: oggi nessuno riceverebbe più i suoi incarichi. In oggetto di modernariato si sarebbe poi trasformata di lì a poco la macchina da scrivere su cui il redattore batte le sue schede, e il cui campanello, squillando agli a capo, tiene sveglia la signora Sambò dell’appartamento vicino. Perfino il microcosmo letterario che suscita le ironie di Sinigaglia, come negli stessi anni quelle di Pontiggia, lo ricordiamo adesso con nostalgia. E lo stesso si può dire del “partito” al quale Daniele dedica i suoi calembour participiali: una formazione politica già sbiadita, ma che vista dal 2019 ci appare straordinariamente stabile.

 

“I romanzi stavano sull’ascensore di sinistra, i giorni su quello di destra. I romanzi erano la scala saggistica, i giorni quella narrativa”

La doppia scaletta di questo romanzo “storico” è nata quando l’autore, in una notte d’insonnia, ha visto due ascensori salire paralleli nel palazzo di fronte al suo. Dalla visione, che evoca già il paesaggio del “Pantarèi”, ecco l’idea del “meta” e della “metà”: “I romanzi stavano sull’ascensore di sinistra, i giorni su quello di destra. I romanzi erano la scala saggistica, i giorni quella narrativa”. I giorni di Stern si specchiano nei profili letterari che abbozza, e lo stile degli scrittori ritratti contagia lo stile delle parti in tondo, dove il redattore narra le avventure che lo hanno portato a una vita solitaria, e gli eventi che gli capitano in questa vita. E’ qui che emerge la ferita a cui si accennava. Descrivendo la silhouette splenetica del protagonista, che si muove con i capitomboli e i balzi iperbolici di un fumetto, Sinigaglia si concentra proprio su ciò che una sagoma del genere non dovrebbe conoscere: l’eccitazione impura della carne, l’eros che affonda tra le pieghe dei corpi, e che con un ritmo ben diverso da quello delle gag impone un’altalena imprevedibile di brividi, euforie, cadute tragicomiche. Stern ci si mostra nell’ultimo rocambolesco rapporto con la moglie che lo ha lasciato, nella seduzione di una studentessa, e nelle liaison reali o sognate con quei ragazzi che per un attimo sembrano una soluzione e che invece non possono esserlo, come mai lo potranno le donne, perché gli uni e le altre sono appena i sostituti di un ur-compagno svanito nelle terre mitiche dell’adolescenza. Felicissimo, nel “Pantarèi”, è il prologo in stile nominale, che coi suoi brevi tasselli umoristici spezzetta il flusso di percezioni, impulsi, catene associative. Ecco Stern appena uscito dalla sede dell’editore, dopo che una redattrice gli ha assegnato il lavoro: “Sempre scrivere su commissione. Tenga, tenga la scaletta. Attenzione a non andare fuori tema. Mezzo milione in cinque giorni. Val bene una scaletta. Anche disposto a ricambiare in natura. Matura? Quanti? Trentacinque direi (…) Ci sono autori che anche senza scaletta. Ma per Céline ci vuole. Selìn. Sembra il nome di un cavallo. Albert? No, quello dev’essere Camus. Già: e Camus? Assente. C’est la vie. Solo qualche anno fa. Il mondo è fatto a scale. Anzi, a scalette”.

 

Siamo già al tema centrale, quello della continua oscillazione dei valori nella borsa letteraria. Ma non tutti i cambiamenti sono uguali. A inizio Novecento, nel campo del romanzo, si è verificato un crollo paragonabile al ’29 di Wall Street. L’enciclopedia verte soprattutto su quest’epoca di crisi, da cui il genere non si è mai ripreso davvero. Allora ha prodotto i suoi capolavori estremi, fuochi d’artificio nati dalla consapevolezza della fine. E’ l’epoca di Joyce, Proust, Musil, Kafka. Questi sommi liquidatori approdano a una nuova “concezione del tempo”, che non si sovrappone più al tempo degli orologi, così come i troppi sensi possibili della vita non riescono più a sovrapporsi alla sua arbitrarietà effettiva. In seguito, a tenere il campo rimangono quasi soltanto i loro imitatori o i restauratori di forme ottocentesche.

 

Se è morto oggi, non era morto allora. C’è una terza possibilità: certe cose possono essere né morte né vive. E Stern lo dimostra

I maggiori romanzieri del pieno Ventesimo secolo, come Céline e Faulkner, più che grandi sono “interessanti”. In realtà, dopo la rivoluzione estetica degli anni Dieci e Venti ce n’è stata una seconda, quella “neoavanguardista” degli anni Cinquanta e Sessanta. Ma era una rivoluzione dimezzata, che ha reinterpretato in maniera accademica le sperimentazioni precedenti: il suo estremismo non pagava dazio. A proposito di Robbe-Grillet, il redattore nota che “se il romanzo fosse davvero negato fino in fondo, esso non dovrebbe avere lettori”, e che se all’antiromanziere francese si applicasse il suo metodo occorrerebbe recensirlo limitandosi a descriverne i libri come parallelepipedi con un certo numero di fogli. Anche quando Stern-Sinigaglia è meno originale, si conferma comunque un divulgatore di lusso. Ovviamente si può approvare o meno. Giusta mi pare la diffidenza per gli innumerevoli tentativi di decodificare i simboli kafkiani, che spiegano sempre troppo e troppo poco; e notevole l’intuizione con cui i personaggi faulkneriani vengono paragonati a Oresti perennemente in fuga dalle Erinni di una contea infernale. Non sono d’accordo, invece, con l’idea che Joyce sia lo scrittore più rivoluzionario. Credo abbia ragione chi legge nella sua opera uno sviluppo conseguente del naturalismo; e credo che Forster vedesse giusto, là dove gli rifiutava la qualifica di “epico” definendolo un “satirico”, cioè un autore che ha bisogno di aggrapparsi come un’edera alla pianta di altre visioni del mondo. Ma più delle schede, interessa il loro legame con la vita dell’estensore. Tra una performance critica e l’altra, Sinigaglia-Stern ce la racconta diventando un joyciano fluviale, un percettivo proustiano invaso dal passato mentre sfiora la maniglia di una porta, un celiniano esclamativo e scapigliato… La sua prosa ingrassa e dimagrisce, perde e riacquista la punteggiatura a ogni capitolo. Al fondo, però, il protagonista rimane uno Zeno. Davanti agli imprevisti rivela una rapidità da clown, ma nella vita quotidiana è vinto dall’irresolutezza. Dilaziona i programmi, e si rende amari i piaceri indagandone con strenua capziosità i moventi inconfessabili. Reprime a lungo il desiderio, ma alla fine gli cede sempre: e allora l’ombra della colpa, che non gli è servita a trattenersi, si allarga sull’atto affogando il godimento in una nausea angosciosa, come chiarisce la pagina stupenda in cui questa condotta è associata a quella di un ragazzo che dopo molte esitazioni inizia a masturbarsi. Il suo rimorso deviato, diffuso su tutto, è poi avvolto da Stern in un’autoindulgenza indistinguibile dall’incapacità di darsi una forma. Ne risulta un contrappunto di voci interiori ripetitivo e sterile. Il redattore si sente un buco nero perché non si realizza né nella riproduzione né nell’arte né nell’amore, cioè in nessuna delle attività che determinano un’evoluzione feconda.

 

Resta “definitivamente provvisorio”: come il romanzo? Sinigaglia, col “Pantarèi”, voleva dimostrare che il genere era sopravvissuto alle gride in cui se ne annunciava enfaticamente la morte. Se anche oggi si torna a dire che è morto, sostiene nella prefazione, bisognerà ammettere che non era morto allora. Ma forse trascura un’altra possibilità: certe cose possono essere né morte né vive. Con le sue schede, Stern lo dimostra. Dopo i grandi liquidatori primonovecenteschi, qualcosa di traumatico è successo sul serio. Da cent’anni, la storia del romanzo coincide con la storia del suo “suicidio infinibile”. Ma si tratta poi di un suicidio? Il romanzo presuppone che esista un’omologia tra le sorti dei singoli e le vicende collettive. Più o meno dalla Grande guerra, si stenta a crederci. Si stenta a credere che raccontare la storia di un individuo significhi illuminarne una più vasta: le vite sembrano fungibili, e collegate ai destini generali in modi indecifrabili. Un piccolo sintomo: i personaggi creati fino alla belle époque non ci somigliano più, e venivano sentiti lontani già negli anni Venti; quelli successivi alla Grande guerra continuano a somigliarci un po’ tutti, e hanno tutti l’aria degli eliotiani “uomini vuoti”. Dall’inizio del Novecento, diceva Luigi Baldacci, operiamo in un tempo di proroga e di deroga.

 

Non solo l’enciclopedia di Stern, anche le sue giornate testimoniano l’impossibilità di dare un senso all’esistenza e al suo sfondo: il “Pantarèi” parla di un mimetico parodista che vive isolato, in un deserto anonimo di cui non si vedono i confini. A questo responso sullo stato dell’arte si può associare quello che ci offre “Eclissi”, il romanzo breve che Sinigaglia ha pubblicato tre anni fa con l’editore Nutrimenti. Anche qui si allungano sulla scena le ombre di una moglie e di un ragazzo perduti. E anche qui, come in una scena del “Pantarèi”, al posto della moglie troviamo un’anziana straniera, una vedova americana bizzarra e misteriosa, con cui il protagonista dialoga mescolando più lingue. Coetaneo del suo autore come lo fu la silhouette dell’85, il quasi settantenne Eugenio Akron raggiunge un’isola nordica per assistere a un’eclissi totale di sole.

 

La sua felicità e le sue angustie sono un termometro attendibilissimo della situazione della narrativa dal tardo Novecento a oggi

Se nel “Pantarèi” la memoria si ravvivava al tocco di una maniglia, qui succede davanti alle stelle (Stern!). Ma se il duetto maccheronico tra i vecchi è registrato con un virtuosismo che incanta, il ricordo del compagno adolescente, e le conseguenze dell’amore inespresso, affiorano con una certa meccanicità. Non è un difetto imputabile tutto a Sinigaglia. Forse è il segno della nostra annosa difficoltà a credere alle scoperte, alle svolte: persino la memoria di “Austerlitz” emerge così, in un modo assai meno convincente delle descrizioni statiche e lucidamente angosciose che conferiscono la sua tipica atmosfera all’opera di Sebald. “Era la mancanza di passione il ventre malato che covava e partoriva le tragedie”, riflette Akron: ed è probabilmente la stessa mancanza che mentre le fa accadere ne sabota la rappresentazione. Ma per tornare al “Pantarèi”, la sua felicità e le sue angustie sono un termometro attendibilissimo della situazione della narrativa dal tardo Novecento a oggi. Leggendolo pensavo ai “Frutti d’oro” di Nathalie Sarraute, un altro romanzo che ha per tema la crisi del genere, e che restituisce il grafico di un dibattito ormai futile, inghiottito dal rapido trascorrere delle idee ricevute, e da uno storicismo stagionale che esorcizza i traumi storici di lungo periodo. Però, resta un però. Alla fine Stern va a consegnare le schede in casa editrice. Dopo avere pestato una merda, l’unica novità nei paraggi, e dopo avere messo una mano sul pomo d’ottone, sembra pronto per il romanzo come Proust lo è alla fine della “Ricerca”. Per quanto sia difficile resuscitarlo, la possibilità non va esclusa, come mille altre. Non si sa mai se il romanzo sia morto o vivo. Ma si sa che nessuno può conoscere il suo futuro, né il futuro della società che lo ha prima nutrito e poi sepolto sotto un’inflazione di surrogati.

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