La foto dell’ex presidente ceco Vaclav Havel a Praga e sotto il filosofo Jan Patocka durante uno dei suoi seminari clandestini che teneva a casa

La cicuta del socialismo

Giulio Meotti

Patocka, il filosofo che convinse i cechi a liberarsi dal regime, fino a morirne. Il “Socrate di Praga”

Louis Aragon aveva definito la Cecoslovacchia “il Biafra della mente”, mentre Heinrich Böll usò l’espressione “cimitero culturale”. Si voleva così descrivere la sterilità, la persecuzione e il silenzio che le autorità filosovietiche avevano imposto alla vita culturale di Praga. In questi giorni si ricordano i trent’anni dalla “rivoluzione di velluto” che pose fine al regime socialista. Fu anche la storia di una vittoria intellettuale, di un copione che si ripeteva estenuante: l’espulsione degli intellettuali dalla società civile, il loro vagabondaggio in umili mestieri, spesso il carcere, la scrittura diretta solo “al cassetto”. Come Bohumil Hrabal, che una mattina si svegliò e si ritrovò i carri armati sovietici a Praga. Il suo nome venne depennato dalle storie letterarie, persino dagli elenchi telefonici. Uno dei tanti grandi scrittori scettici, disingannati, post-rivoluzionari perché davvero allergici all’estremismo non soltanto dei sovietici ma anche di tanti occidentali. Quando Rudi Dutschke, capo del movimento studentesco berlinese, andò a Praga a parlare ai cechi di classe operaia, di Marx, di rapporti di produzione, i praghesi reagirono nauseati. Lo scrittore Jiri Stransky avrebbe trascorso nove anni in prigione. Vladimir Pistorius, il grande editore di questi maledetti, continuò a pubblicare samizdat sotto il naso delle autorità.

 

Kundera, Havel, Stransky, Hrabal sono soltanto alcuni degli scrittori cechi che si opposero al regime, pagando in modi diversi

Stransky proveniva da una famiglia molto nota nella prima repubblica cecoslovacca nel 1918; suo nonno era presidente del Parlamento e suo padre, un avvocato, sopravvisse a un campo di concentramento tedesco. Nel 1969, un anno dopo che la liberalizzazione di Praga si concluse con l’invasione del patto di Varsavia a guida sovietica, fu pubblicato il primo libro di Stransky, “Felicità”. Cinque giorni dopo la comparsa del romanzo, fu soppresso e tutte le copie distrutte. Nel 1970, fu nuovamente mandato in prigione per due anni come dissidente non pentito. Il manoscritto del suo romanzo più lungo, “La terra selvaggia”, venne bandito. E ovviamente il drammaturgo Vaclav Havel. Praga risuonerà del grido “Havel na hrad!”, “Havel al castello!”. E poi Milan Kundera, che dopo l’invasione sovietica perse il lavoro e vide sparire tutti i suoi libri dalle librerie e dalle biblioteche: improvvisamente Kundera non esisteva più. Dirà l’autore dell’”Insostenibile leggerezza dell’essere”: “Spesso ho l’impressione che esistano due pesi e due misure dell’anticonformismo: il romanziere dell’Est deve lottare contro il proprio governo, quello dell’Ovest contro la forma tradizionale del romanzo”. L’idea stessa di Europa in fondo fu salvata in quegli anni non dai popoli che sono oggi nell’Unione europea, ma dai popoli che oltre cortina si battevano contro le rivoluzioni comuniste, e invocavano le nostre libertà.

 

Come Jan Patocka. “È a causa della sua mancanza di paura che Jan Patočka, il filosofo fenomenologo, è stato sfinito dalla polizia, sottoposto agli interrogatori estenuanti, perseguitato da loro fino a quando era sul suo letto d’ospedale e letteralmente messo a morte dal potere ”. Con queste parole lapidarie, Paul Ricœur, uno dei più importanti filosofi francesi del XX secolo, ricorderà su Le Monde l’amico e collega morto a Praga il 13 marzo 1977. Rudé Právo, il giornale ufficiale del Partito comunista cecoslovacco, non gli dedicò neppure una riga. In America, il grande linguista Roman Jakobson invece su New Republic scrisse che “ci sono stati tre filosofi cechi di importanza internazionale e di eccezionale forza morale: Comenius, Masaryk e Patocka”. Come Socrate, Patocka aveva “corrotto le menti della gioventù” durante le lezioni clandestine a casa sua. Quelle registrazioni, assieme ai samizdat, confluiranno nel libro “Platone e l’Europa”. Per la maggior parte della sua vita, Patocka è rimasto lontano dalle aule di filosofia costretto a lavorare come traduttore per venti corone a pagina, come rivelerà la figlia Jana alla Nouvelle Revue Française.

 

Il poeta Egon Bondy, un informatore della polizia segreta, denunciò i suoi seminari privati, “borghesi e religiosi”

Si formò alla Sorbona, all’École des Hautes Études e al Collegio di Francia, a lezione dai grandi del tempo, come Léon Brunschvicg, Édouard Le Roy e Pierre Janet. Fu durante un soggiorno a Parigi che Patocka incontrò Alexandre Koyré, ma soprattutto il professore di lingua tedesca ma di origine morava Edmund Husserl. Ad ascoltare il padre della fenomenologia, con Patocka, c’erano anche Gabriel Marcel, Emmanuel Lévinas e Lev Šestov. Patočka avrebbe continuato le sue ricerche in Germania, a lezione da Martin Heidegger. Poi il rientro a Praga e l’invasione dei nazisti. Ma il “secolo breve” Patocka lo subirà tutto. Dopo i nazisti, arrivano i comunisti, che lo accusano di “idealismo borghese” e di “esistenzialismo soggettivo”. Patocka rifiuta di iscriversi al Partito Comunista e viene escluso dall’insegnamento. Le sue pubblicazioni filosofiche furono proibite, le sue idee relegate in forma di samizdat, sotto banco, così come i suoi seminari filosofici furono organizzati segretamente in casa. Solo nel 1968, con la breve liberalizzazione, Patocka fu in grado di riprendere a insegnare all’università. Sognava un’Europa democratica, libera ed etica, una Europa della coscienza ispirata all’antica Grecia di Socrate. Pražský Sokrates, il “Socrate di Praga”, come lo ha definito la televisione ceca in uno speciale.

 

Secondo Zdeněk Pinc, uno degli studenti di Patočka, nel 1975 il filosofo aveva delineato tre possibili linee d’azione filosofiche: il percorso di Platone, ovvero il ritiro dalla società in una emigrazione interiore; il percorso dei sofisti, ovvero il compromesso con la società per sopravvivere; infine, il percorso di Socrate, che conduce a un conflitto con la società e alla morte. Il Candido di Voltaire è l’emigrazione interiore di Platone, Heidegger scelse il percorso dei sofisti, mentre Patocka scelse Socrate. Scelse di bere la cicuta.

 

“La gente può perdere anche quegli impieghi che finora le servivano da rifugio, come il lavoro di guardiano notturno, di pulitore di finestre, di fochista, di portantino negli ospedali” scrisse Patocka. “Ma non a lungo: qualcuno lo deve pur fare questo lavoro. Qualitativamente non c’è dunque nulla di nuovo, tutto è ben noto. Ma ciò è ben lungi dal controbilanciare l’incertezza cui è sottoposta la presunzione dei potenti. Non potranno mai essere sicuri di chi li fronteggia. Non sapranno mai se coloro che obbediscono oggi saranno pronti a farlo anche domani, quando avranno di nuovo occasione di essere se stessi”.

 

Fu “messo a morte dal potere”, scriverà Paul Ricoeur, mentre Roman Jakobson lo ricorderà come fra i grandi filosofi del secolo

Il regime lo costrinse al pensionamento. Nel 1970, in uno degli ultimi articoli sulla rivista Křesanská, Patočka aveva parlato delle “basi spirituali della vita nel nostro tempo”, dell’Europa che si era trovata in un’era “post-europea”, della “democrazia di massa” e di “un’epoca di ottimismo, ma non di felicità”.ù

 

Ricorderà Václav Havel: “Non so cosa sarebbe stata Charta 77, se agli inizi non le avesse illuminato la strada Patočka con il fulgore della sua grande personalità”. Di Patocka l’idea della “polis parallela”, la ripresa della “vita activa” di Hannah Arendt, la dignità della cultura nazionale e la “solidarietà dei percossi” che porteranno alla stagione della “rivoluzione di velluto” e alla fine del regime socialista a Praga. “Occorre qualcosa di fondamentalmente non tecnico, non unicamente strumentale, occorre un’etica evidente a se stessa, non dettata dalle circostanze, una morale incondizionata, la morale non esiste per far funzionare la società, ma semplicemente perché l’uomo sia l’uomo”, disse Patocka.

 

Da allievo di Edmund Husserl, Patocka pensava che il mondo moderno avesse assistito a una completa trasformazione della soggettività degli esseri umani e che oggi fosse sperimentata come qualcosa di frammentato, di minacciato. Tuttavia, abbiamo lo stesso bisogno di comunità e da questo senso della crisi nasce un nuovo tipo di solidarietà: la solidarietà dei frammentati e dei frantumati.

 

“Si parla continuamente dell’Europa in senso politico, ma si tralascia la questione di sapere che cosa sia esattamente e da dove sia nata” scrisse Patocka. “Sentiamo parlare d’integrazione dell’Europa. Ma l’Europa è qualcosa che possa essere integrata? Si tratta di un concetto geografico o puramente politico? No, e se vogliamo affrontare la questione della nostra situazione presente, dobbiamo innanzitutto comprendere che l’Europa è un concetto che si basa su fondamenti spirituali”.

 

L’ultimo affronto del regime socialista a Patocka, dopo averlo ucciso, fu al suo funerale, che cercarono in tutti i modi di impedire

Senza considerare la resistenza delle chiese cattoliche, quella di Patocka era una forma di dissidenza senza precedenti all’interno dei paesi comunisti. “Jan Patocka e, attraverso di lui, la fenomenologia, ha esercitato sulla Rivoluzione del 1989 un’influenza simile a quello di Voltaire e Rousseau sulla Rivoluzione francese o quello di Marx e Plekhanov su quello russa”, scrive Aviezer Tucker nel libro “Philosophy and politics of Czech dissidence”.

 

Quando i colleghi si rifiutavano di firmare Charta 77, Patocka urlava: “Non ha firmato, andrà all’inferno!”. Il poeta Egon Bondy, un informatore della polizia segreta, divulgò i dettagli sui seminari clandestini di Patocka, le sue “interpretazioni esplicitamente borghesi e religiose” in cui “il termine marxismo non compare neanche una volta”. Era una condanna senza appello. La polizia va a prelevarlo di notte a casa. Patocka vi farà ritorno dopo dieci ore di interrogatori e con una grave crisi cardiaca in corso. Lo ricoverano all’ospedale di Strahov. Patocka butta già una sorta di testamento intellettuale, in cui scrive: “Nessuna arrendevolezza ha finora portato a un miglioramento, bensì soltanto ad un peggioramento della situazione. Quanto maggiore è la paura e il servilismo, tanto più quelli che hanno il potere hanno osato, osano e oseranno”. E ancora: “Le cose per cui eventualmente si soffre sono quelle per cui vale la pena di vivere”.

 

La polizia piomba in ospedale per interrogarlo ancora. La notte dopo, Patocka soccombe a una emorragia cerebrale e alla morte il 13 marzo 1977. Lo stesso giorno gli studenti più fedeli di Patocka andarono nel suo appartamento e portarono via tutto il lavoro del filosofo, per non farlo finire nelle mani della polizia segreta, incluso il manoscritto “Europa und Nach-Europa” (Europa e Post-Europa), su cui Patočka aveva intenzione di lavorare dopo il ritorno dall’ospedale.

 

Tanti dissidenti furono arrestati perché non partecipassero ai suoi funerali, molti stranieri furono espulsi dal paese, fu persino vietata la vendita di fiori attorno al cimitero. Scomparve anche la corona di fiori del poeta Jaroslav Seifert. I tram diretti al cimitero di Brevnov furono interrotti. Parteciperanno in mille all’ultimo saluto al filosofo. Le moto e gli elicotteri della polizia provano a disturbare il funerale. Le parole del sacerdote furono a malapena udibili dalla folla. Ma dodici anni dopo sarebbero stati gli allievi del Socrate di Praga, i famosi “percossi”, a seppellire il comunismo.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.