Mikhail Gorbachev e Werner Herzog nel documentario dedicata allo statista russo (Foto LaPresse)

Le lacrime, gli anni, Raisa e i sogni. Gorbachev a colloquio con Herzog

Micol Flammini

Sulla lapide dello statista russo scrivete: “Ci abbiamo provato”

Roma. Gorbachev è un leader incompiuto. Ultimo segretario del Partito comunista dell’Unione sovietica, per una parte di mondo è il simbolo di tutto quello che non sarebbe mai potuto succedere senza di lui, per l’altra è il simbolo di tutto quello che a causa sua è accaduto. In una parte c’è l’occidente, nell’altra la Russia. Si dimise il 25 dicembre del 1991, lasciandosi cadere alle spalle la storia, che è venuta giù in fretta, con un rumore di piatti rotti, di martelli contro muri più o meno spessi – prima il muro di Berlino poi le mura domestiche degli appartamenti forzatamente condivisi in Urss –, è crollata senza pianti, tra sospiri di sollievo e denti digrignati.

 

Il regista tedesco Werner Herzog non poteva che sedersi davanti a lui, a Mikhail Gorbachev, per capire cosa ne è stato di quegli anni, delle sue speranze e delle sue parole d’ordine: glasnost’ (trasparenza) e perestrojka (ricostruzione) per realizzare un documentario uscito ieri negli Stati Uniti dal titolo “Meeting Gorbachev”. Il regista tedesco gli domanda di tutto, degli anni, dei malintesi, in una conversazione intensa che sembra non lasciare molto spazio al futuro. Parlano di Boris Eltsin, il ponte tra l’Unione sovietica e la Russia di oggi, “avrei forse dovuto mandarlo da qualche parte”, commenta Gorbachev. In Germania, il paese del regista, Gorbachev è venerato, è stato l’uomo che ne ha permesso la riunificazione, l’uomo dell’opportunità e nella lunga conversazione realizzata in tre incontri Herzog cerca di capire perché la storia ha accolto la figura dell’ex leader con un caleidoscopio di significati.

  

 

“Meeting Gorbachev” è un tributo, il dono di Herzog al leader che gli ha regalato la Germania così com’è ora, che ha regalato l’Europa così come la conosciamo. “Sono tedesco – esordisce il regista – e il primo tedesco che hai incontrato probabilmente voleva ucciderti”, confessa di volersi scusare per i crimini dei suoi connazionali. Ma Gorbachev racconta che i primi tedeschi conosciuti in vita sua erano i vicini di casa e avevano un negozio di dolciumi, “dolci meravigliosi”, dice.

 

Nel documentario, novanta minuti di mondo, di vita, di storia, Herzog chiede a Gorbachev della politica, del partito, dell’infanzia, della Russia. Gli domanda di sua moglia Raisa morta nel 1999, gli chiede di parlare della sua voce, delle sue maniere, “le ricordi?” domanda il regista con insistenza febbrile. “Ricordi il suo profumo, ricordi le sue risate?” Gorbachev risponde a tutto, lascia cadere le lacrime, “quando è morta mi è stato tolto tutto”. Lacrime che diventeranno storia. Come ogni opera di Herzog, “Meeting Gorbachev” non è un documentario e non è neanche un film, non è storia e non è neanche finzione. È estetica e filosofia, è una telecamera che insiste sull’ex presidente dell’Urss, che lo guarda sorridere, piangere, distrarsi, arrabbiarsi, lo guarda pensare. Lo guarda mentre raccoglie quei pezzi di storia che gli sono caduti alle spalle, senza rimorsi.

  

 

Herzog è parte del documentario, è regista e attore e nel comporre questa grande agiografia di Mikhail Gorbachev – le cui condizioni di salute sono molto peggiorate durante le riprese – lo consegna alle schiere dei grandi visionari inascoltati. Eppure il leader russo ha cambiato tutto, ha rivoluzionato un continente, molti russi dicono che lo fece per mancanza di competenza e di forza, per il resto del mondo lo fece perché aveva capito che quel mostro scomposto e informe che era l’Unione sovietica, ingigantita e appesantita dalla sua stessa ideologia, dovesse finire. Quell’enorme struttura stanca non esiste più, ora ne esiste un’altra, meno grande ma altrettanto stanca. Gorbachev ha ottantotto anni, lo sguardo al passato sembra volgerlo senza pesantezza. “Cosa vorresti che ci fosse scritto sulla tua lapide?”, domanda Herzog. Gorbachev ci pensa: “Vorrei ci fosse scritto: ‘ci abbiamo provato’”.

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