Achille benda Patroclo, vaso con figure rosse del pittore di Sosia, circa 500 a. C. (Berlino, Altes Museum)

L'Iliade come salvezza nei tormenti paralleli di due donne

Edoardo Rialti

Un'accecante lezione di umanità, un libro di ispirazione divina come la Bibbia. Per Simone Weil e Rachel Bespaloff, ebree apolidi nell'Europa in fiamme, non c'è contraddizione tra Omero, Isaia e Cristo  

“Un momento immaginativo adesso sembra contare più delle realtà che seguirono. Fu il primo proiettile che udii… in quel momento non provai esattamente paura, e ancor meno indifferenza: un piccolo segnale tremolante che affermava: ‘Ecco la Guerra. Ecco ciò di cui scrisse Omero’” (C. S. Lewis)

 

“Quando accetta una realtà altrimenti insopportabile, l’uomo perdona alla vita, perdona alla condizione umana il fatto di essere quella cosa che gli impone con indifferenza un termine definitivo” (George Steiner)

 

Molto prima dei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, una creatura dell’immaginazione ha sognato il suo cantore: la principessa sventurata, la profetessa mai creduta ha scorto, attraverso le nebbie dei secoli, il vecchio poeta cieco che si sarebbe messo in ascolto delle ossa dei morti, consegnandone le storie all’eternità. È uno dei passi più commoventi dei Sepolcri di Foscolo, laddove il poeta ribalta la prospettiva, e Cassandra stessa annuncia la futura venuta di Omero. E’ l’intuizione che siamo noi ad abitare le grandi storie e non viceversa. Sono esse i fondamenti segreti, le autentiche coordinate dell’orizzonte nel quale, come il Dio Ignoto degli Atti, “viviamo e ci muoviamo ed esistiamo”, le radici di cui riemerge tutta la forza nei momenti di crisi personali e collettive, le immagini e gli specchi cui rivolgerci quando ci interroghiamo sulla nostra identità, e cui attingere per le difficili e nuove decisioni da prendere. “Nell’Iliade Omero ha conferito all’ordinamento della vita terrestre e spirituale del mondo antico una struttura altrettanto possente quanto Cristo al mondo moderno”, notò Dostoevskij in una lettera del 1840, eppure, a un secolo di distanza, nel cuore d’orrore del secondo conflitto mondiale, due pensatrici tornarono a guardare proprio alle mura di Ilio, alla ricerca d’un suggerimento teologico, esistenziale e politico che non costituiva un mero antefatto ma una componente essenziale dell’anima che l’occidente contemporaneo rischiava di smarrire per sempre. Si trattava in entrambi i casi di due filosofe ebree sui generis, due esuli politiche e spirituali, che si immaginavano rispettivamente “sulla soglia” e “al crocevia” delle tradizioni culturali e religiose che amavano e studiavano.

 

Simone Weil (foto a sinistra) è certamente la più nota, per la vastità della sua riflessione, per la purezza bruciante degli interrogativi con cui ha vagliato il suo percorso interiore e i grandi temi della modernità; nella sua celebre “Lettera a un religioso”, rivendicava la sua vocazione “appena fuori” del battesimo, laddove (è un giudizio altrettanto celebre) convertì tanti atei e deconvertì altrettanti credenti. Fuggita dalla Francia occupata insieme ai genitori, dopo un breve soggiorno in America si trasferì a Londra, dove morì letteralmente consumata dall’ascetismo con cui cercava di accompagnare le sofferenze dei suoi connazionali e da mille progetti di studio e scrittura (tra cui una Costituzione per l’Europa liberata). Rimase invece in America Rachel Bespaloff, ebrea ucraina nata in Bulgaria e cresciuta a Ginevra, formatasi con Ernst Bloch, Sestov, Marcel e Wahl. Conferenziera e docente negli Stati Uniti al pari di Mann e Zweig, morì suicida come quest’ultimo, seppure alcuni anni dopo la fine della guerra, avendo salutato con gioia la nascita di Israele, unica risposta possibile al genocidio. Per entrambe, nei rispettivi scritti L’Iliade o il poema della forza (1939-40, di qualche anno fa l’edizione italiana per Asterios) e Sull’Iliade (1942, meritoriamente pubblicato di recente da Adelphi con una nuova traduzione), il primo grande poema della cultura occidentale esprimeva già una rivelazione decisiva e definitiva, in complessa dialettica con altri passi della coscienza occidentale e momenti successivi dell’epica.

 

 Bespaloff: “Tolstoj non può fare a meno di sminuire e svilire l’avversario del suo popolo. Omero non umilia né vincitore né vinti”

  

E’ davvero suggestivo e stimolante inforcare le lenti di queste due vite parallele, questi due sguardi che non si incrociarono mai e che colpiscono per le tante sovrapposizioni, ma anche per le significative differenze, soprattutto per quanto concerne il valore della cultura ebraica come ponte tra classicità e cristianesimo. Il volume della Bespaloff (foto a destra) si apre con una splendida sequenza di ritratti singoli, cui seguono alcune valutazioni e raffronti complessivi. “Ettore è il custode delle felicità periture…[per lui] morire è abbandonare allo scempio tutto ciò che ama”. Suo opposto speculare è il semidio quasi invincibile, quell’Achille che cammina sempre sulla riva del mare, confine visibile tra la terra dei mortali e le acque della genitrice immortale Teti, che l’ha cresciuto “come una pianta sul declivio di un vigneto”, unica madre che può avvicinarsi tanto al figlio in battaglia, armarlo e sostenerlo, eppure al tempo stesso separata da una distanza straziante, incolmabile. Per la Bespaloff Achille è l’eterna fiamma dell’irrazionale nella matematica cosmica, un fuoco che non conosce pace: “Non è l’eroismo di Achille a tenerci col fiato sospeso, ma il suo scontento, la sua meravigliosa ingratitudine… senza Achille, l’umanità vivrebbe in pace. Senza Achille, l’umanità si rattrappirebbe, si addormenterebbe congelata dalla noia ben prima del raffreddamento del pianeta”. E’ in prima linea nel distribuire la morte, ma ciò lo rende anche il primo e il più esposto ad essa, e questo il giovane principe lo sa: “Quando Achille, accecato dalla forza, massacra Polidoro e Licaone, è pronto per la freccia di Paride”. Ciò che è vero del più grande degli aggressori, in fondo riguarda ogni soldato sul campo di battaglia: “Costretto a essere forte o a morire, l’uomo scopre un modo più arido, più ostinato, di amare la vita”. Sugli spalti di Troia, assisa al fianco dei vecchi, vituperata dalle altre donne, siede e siederà sempre Elena, la bellezza, “giacché alla fine – e contrariamente a quanto sostengono i nostri economisti – i popoli che si fanno la guerra per conquistare i mercati, le materie prime, le terre fertili e le loro risorse combattono innanzitutto e sempre per Elena. Omero non ha mentito”.

 

Le due pensatrici tornarono a guardare proprio alle mura di Ilio, alla ricerca d’un suggerimento teologico, esistenziale e politico

Nell’originale lettura della Bespaloff gli dèi, con l’eccezione di Teti e Apollo, hanno rilievo pressoché unicamente comico, e agiscono a mo’ di agenti provocatori, come le spie d’un governo lontano che complotta sommosse, sbilancia i conflitti. Un primo raffronto con la Bibbia emerge notando come “lo scetticismo disincantato del figlio di Crono prefigura stranamente quello dell’Ecclesiaste”, una vanità delle vanità che si declina nella scoperta che “nell’Iliade la forza appare dunque come la suprema realtà, e insieme la suprema illusione dell’esistenza”, mentre l’eredità di Omero in Tolstoj si manifesta nella consapevolezza di entrambi che “quando si affrontano davanti a Troia o a Mosca gli eserciti nemici, al di là di ciò che di inespiabile li separa, scrivono insieme il testo dell’epopea dal quale le generazioni future attingeranno il potere di trasfigurare di nuovo il mondo. Ovviamente tale trasfigurazione non è una redenzione… Eppure le ingiunzioni dell’irreparabile risvegliano la volontà creatrice. Si rivolgono al futuro e il futuro risponde. Se esiste un’autentica solidarietà, una comunione vivente tra individui isolati, non trae forse origine dalla speranza di fondare sulla vergogna e sul lutto una realtà nuova?”. E tuttavia “quando la guerra appare come la materializzazione di un duello di verità ed errore, la stima reciproca diventa impossibile”, ed è per questo che “Omero è infinitamente superiore a Tolstoj per equanimità. Il russo non può fare a meno di sminuire e svilire l’avversario del suo popolo, di denudarlo davanti ai nostri occhi. Il greco non umilia né vincitore né vinti. Ha voluto che Achille e Priamo si rendessero reciprocamente omaggio”. Già, l’incontro sotto la tenda, il vertice del poema verso tutto cui converge e che pure al tempo stesso costituisce una sorta di salto quantico, “unico caso nell’Iliade in cui la supplica, anziché esasperare il supplicato, gli apre gli occhi. All’improvviso emerge che Achille è vittima di Achille non meno di tutti i figli di Priamo… L’Uccisore ridiventa un uomo carico di infanzia e di morte”.


Pieter Paul Rubens, “Achille che sconfigge Ettore”, 1630-32 (Pau, Musée des Beaux-Arts)


 

Fuggita dalla Francia occupata, dopo un breve soggiorno in America Simone si trasferì a Londra, dove morì consumata dall’ascetismo

Ecco l’eterna lezione del poema, “gli uomini vivono tutti nell’infelicità: questo è l’unico fondamento della vera uguaglianza. Omero ha voluto che fosse proprio il vincitore a ricordarlo al vinto”. Ed è davvero una suggestiva lettura quella che fa affermare alla filosofa come “più e meglio di Zeus dal monte Ida, Priamo rappresenta il vate della tragedia poiché è anche colui che la subisce. Grazie a lui il prestigio della debolezza trionfa per un istante sul prestigio della forza”.

 

“La Bibbia e l’Iliade sono sempre in sintonia con la nostra esperienza, anche la più ricca di contraddizioni”

Tutte queste verità spirituali sono parimenti espresse dal grande “canto della Terra” che per la Bespaloff costituisce lo sguardo ebraico-veterotestamentario: “In virtù di un impercettibile incremento, la Bibbia e l’Iliade sono sempre in sintonia con la nostra esperienza, anche la più ricca di contraddizioni”. Li definisce senza mezzi termini “due libri di ispirazione divina” nei quali si comunica “una particolare modalità di pensiero” che si spinge sempre oltre le finalità sociali fino all’essere, o all’affermazione della vita nella sua totalità” Ciò che Omero esprime nel contrasto tra mortalità umana e immortalità divina, la Bibbia lo traduce in termini di energia incorrotta e corruttibile. Il grande leitmotiv della fecondità che percorre tutto l’Antico Testamento incarna questa dinamica perenne, dell’individuo e del popolo tutto, per cui “la giustizia è un frutto della terra fecondata” dalla rettitudine, e ciò supera e contesta ogni facile superbia nazionalistica, anche se “i giudizi di Dio si iscrivono e si decifrano meglio nella storia di un popolo che in quella degli individui”.

 

Weil: “Il vero eroe, il vero soggetto, il vero centro dell’Iliade è la forza… La forza è ciò che fa di chiunque le è sottomesso una cosa”

Tale ultima identità tra Greci ed Ebrei è invece profondamente contestata dalla Weil. La giovane mistica conosceva bene non solo la persecuzione, ma la guerra stessa. Si era recata in Spagna contro i franchisti e ne era tornata disgustata dalla bramosia di violenza che aveva contagiato molti suoi compagni di lotta. In una celebre lettera a Bernanos (il monarchico che aveva accusato la chiesa cattolica e le sue connivenze con la destra) a sua volta la Weil denunciava un pari fanatismo dalla propria parte della barricata: “Allorché le autorità temporali o spirituali hanno collocato una categoria di esseri umani al di fuori della cerchia di coloro per i quali la vita ha un prezzo, nulla appare più naturale all’uomo di uccidere. Quando si sa che si può uccidere senza incorrere in alcun castigo, allora si uccide: o quanto meno si circonda di sorrisi di consenso coloro che uccidono… un’atmosfera simile cancella immediatamente lo scopo stesso della lotta. Infatti non si può formulare tale scopo se non riconducendolo al bene pubblico, al bene degli uomini – ed ecco che gli uomini non hanno nessun valore”. Nei suoi diari diagnostica e si chiedeva: “Il contatto con la forza è ipnotizzante; immerge nel sogno [...]. Criterio: la paura e il gusto di uccidere. Evitare l’una e l’altra. Come? In Spagna, questo mi sembrava uno sforzo da spezzare il cuore, non sostenibile a lungo”.

 

L’epica occidentale successiva a Omero non riesce a mantenere la sua vertiginosa pietà universale, perché macchiata d’ideologia

Proprio interrogandosi su questo, eccola rivolgersi a Omero, cominciando dal tradurre numerosi passi dell’Iliade. Come ricordò la sua amica e biografa Simone Pétrement, “poiché ci teneva a tradurre verso per verso, rispettando i rinvii di parole al verso seguente (mi fece notare che è spesso con l’impiego del rinvio che il poeta esprime questo quel sentimento), poiché voleva anche conservare, per quanto possibile, l’ordine delle parole, ci metteva spesso una mezz’ora per tradurre un verso. Il risultato mostra che valeva la pena di rispettare una tale esattezza. Credo che nessuna traduzione sia mai riuscita a far risaltare in modo così evidente la tenerezza e la pietà umana di cui è intessuta l’Iliade”.

 

Rimase in America Rachel, ebrea ucraina nata in Bulgaria e cresciuta a Ginevra. Morì suicida alcuni anni dopo la fine della guerra

Al pari della Bespaloff, anche la Weil nota che “il vero eroe, il vero soggetto, il vero centro dell’Iliade è la forza”, ma di cosa si tratta, in fondo? “La forza è ciò che fa di chiunque le è sottomesso una cosa. Quando è esercitata fino in fondo fa dell’uomo una cosa nel senso più letterale, perché ne fa un cadavere”. Per gli uomini in guerra, ciò diventa sinistramente naturale, sulle spiagge della Troade come in Catalogna. Comportarsi diversamente è quasi impossibile, perché “quando ci si è dovuti mutilare di ogni aspirazione a vivere, per rispettare la vita degli altri occorre uno sforzo di generosità da spezzare il cuore”. In tale prospettiva il processo di riduzione e annullamento non riguarda solo la vittima, ma anche il carnefice, “il soldato vincitore è come un flagello della natura; posseduto dalla guerra, è diventato una cosa al pari dello schiavo”. Eppure, persino in questo turbine che acceca e schiaccia tutti allo stesso modo, resta la possibilità di mettersi in ascolto d’un’altra voce, un’altra nota interiore, e ritrovare così se stessi, e gli altri: “Talvolta un uomo trova così la sua anima mentre delibera con se stesso, quando cerca, come Ettore davanti a Troia, senza l’aiuto degli dèi o degli uomini, di far fronte da solo al destino. Gli altri momenti in cui gli uomini trovano la propria anima sono quelli in cui amano; quasi nessuna forma pura dell’amore è assente dall’Iliade”.

 

L’incontro di Achille col vecchio Priamo. “La grazia suprema delle guerre
è l’amicizia che sorge nei cuori di nemici mortali
e fa sparire la fame di vendetta”

 

Accoglienza dello straniero, antiche ospitalità, dedizione materna, passione erotica, amicizia, sono tutte dinamiche che spezzano la catena montaliana della necessità, esponendoci a una verità che infine sfolgora, ancora una volta, nella tenda di Achille, nell’incontro col vecchio Priamo: “Il trionfo più puro dell’amore, la grazia suprema delle guerre, è l’amicizia che sorge nei cuori di nemici mortali. Essa fa sparire la fame di vendetta per il figlio ucciso, per l’amico ucciso; per un miracolo ancora più grande, cancella la distanza tra benefattore e supplice, tra vincitore e vinto”. E’ il moto inverso rispetto alla cosificazione, una “amarezza che deriva dalla tenerezza”. E’ questo che faceva affermare a Simone Weil che, lungi dal costituire un cambiamento radicale, “il Vangelo è l’ultima e meravigliosa espressione del genio greco”. In netto contrasto con la Bespaloff, sono semmai la cultura romana ed ebraica a proporre un diverso ordinamento morale, cui l’occidente si è colpevolmente legato troppo a lungo: “Sia i Romani sia gli Ebrei hanno creduto di essere sottratti alla comune miseria umana, i primi in quanto nazione scelta dal destino per dominare il mondo, i secondi per il favore del loro Dio nella misura esatta in cui gli obbedivano. I Romani disprezzavano gli stranieri, i nemici, i vinti… gli Ebrei vedevano nella sventura il segno del peccato e di conseguenza un legittimo motivo di disprezzo”. Giobbe e taluni passi dei Profeti non partecipano di questa hubris moralistica, ma si tratta di eccezioni: “Romani ed Ebrei sono stati ammirati, letti, imitati con gli atti e con le parole, citati ogni volta che c’era da giustificare un crimine, nel corso di venti secoli di cristianesimo”. Ciò si può notare già nelle leggende sui martiri dei primi secoli: “Si credette di vedere un segno della grazia per il fatto che essi subivano le sofferenze e la morte con gioia; come se gli effetti della grazia potessero arrivare più lontano negli uomini che nel Cristo… possono levarsi apparentemente al di sopra della miseria umana solo gli uomini che mascherano ai propri occhi il rigore del destino con il soccorso dell’illusione, dell’ebbrezza o del fanatismo. L’uomo che non è protetto dalla corazza di una menzogna non può patire la forza senza restarne colpito fino all’anima. La grazia può impedire che questa percossa lo corrompa, ma non può impedire la ferita”.

  

“Sull’Iliade” della Bespaloff si apre con una splendida sequenza di ritratti singoli, cui seguono alcune valutazioni e raffronti complessivi

Tra Zeus e Yahweh non può istituirsi alcun paragone, a meno di condannare il Dio ebraico: “Nell’Iliade, Zeus non ordina alcuna crudeltà. Secondo i Greci, ‘Zeus supplice’ abita in ogni sventurato che implori pietà. Yahweh è il Dio degli eserciti… Erodoto cita numerosi popoli ellenici e asiatici, di questi soltanto uno aveva uno ‘Zeus degli eserciti’. Questa bestemmia era sconosciuta a tutti gli altri”. Dunque anche per la Weil, l’epica occidentale successiva a Omero, anche nei suoi picchi, non riesce a mantenere la sua vertiginosa pietà universale, proprio perché macchiata d’ideologia: “Le chansons de geste non hanno saputo raggiungere la grandezza per mancanza d’equità; nella Chanson de Roland la morte di un nemico non è sentita dall’autore e dal lettore come la morte di Rolando”. Al pari di Giobbe, Geremia e Isaia, anche Shakespeare o Cervantes ci hanno testimoniato uno sguardo diverso dalle narrazioni semplificate verso cui scivoliamo costantemente, ieri come oggi. Eppure, al pari degli antichi eroi ed eroine, travolti dalla forza che esercitano e subiscono, anche noi possiamo e dobbiamo ritornare a quella prima fondamentale, quasi accecante lezione d’umanità nuda e vulnerabile se non vogliamo smarrire per sempre la nostra anima: “Nulla di quanto hanno prodotto i popoli d’Europa vale il primo poema conosciuto che sia apparso presso uno di essi. Ritroveranno forse il genio epico quando sapranno credere che nulla è al riparo dalla sorte, che mai si deve ammirare la forza, né odiare i nemici, né disprezzare gli sventurati. E’ improbabile che ciò accadrà presto”. Sono parole di ottant’anni fa.
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