La copertina del libro Critica e invenzione di Ricardo Piglia

I primi critici letterari devono essere gli scrittori. La lezione di Piglia

Alfonso Berardinelli

Lo scrittore argentino aveva capito che la critica viene prima della letteratura. Ecco perché leggere “Critica e invenzione” (Mimesis)

Sento il bisogno di segnalare, e credo che ne valga la pena, un libro dello scrittore argentino Ricardo Piglia, Critica e finzione, uscito da Mimesis (207 pagine, 18 euro). La prima ragione è obiettiva: di questo autore (nato nel 1941, morto nel 2017) si sa ben poco, le enciclopedie letterarie lo ignorano e quando morì, da noi nessuno se ne accorse, benché ci fossero ben sei libri suoi usciti da Feltrinelli, Serra e Riva, Guanda e Sur. E’ uno dei tanti esempi di un fenomeno inquietante in un’epoca in cui crediamo di sapere tutto di tutti: si tratta della quantità di scrittori e intellettuali di valore che ignoriamo.

   

La seconda ragione per cui ne parlo è più personale, è l’importanza del rapporto fra letteratura e critica, rapporto in cui, secondo Piglia, la critica non viene dopo la letteratura, viene prima. Lo scrittore è in verità un critico e nella narrativa di Piglia (Respirazione artificiale, La città assente e Diario di Emilio Renzi) l’attitudine, la passione critica viene anche esemplificata e incarnata da personaggi tra finzione e autobiografia. Come scrive il prefatore Mirko Olivati, questo scrittore mette al primo posto la critica perché vuole sottolineare che “non esiste uno spazio letterario puro”. La migliore letteratura è infatti onnivora, può nutrirsi di tutto allo scopo di interpretare tutto, di decifrare enigmi e indizi, cosa che del resto ognuno di noi fa di continuo in ogni giorno della vita anche senza esserne consapevole.

   

Proprio perché la letteratura allo stato puro è quasi una contraddizioni in termini, da giovane Piglia, all’università, invece di studiare Letteratura, studiò Storia: “Gli storici lavorano con il mormorio della storia. I loro materiali sono un tessuto di finzioni di storie private, di racconti criminali, di statistiche, di testamenti, di rapporti confidenziali, di lettere segrete, di delazioni…”.

    

Nel saggio di postfazione, scritto da Massimo Rizzante e intitolato “La critica degli scrittori”, viene chiarito che Ricardo Piglia è “figlio degli anni Sessanta del secolo scorso” ed è vissuto in decenni nei quali l’America latina è stata drammaticamente immersa nella storia. In Argentina la caduta di Juan Domingo Perón, il golpe del 1962 e 1966, la dittatura militare dal 1976 al 1983, la guerra delle isole Malvine con l’Inghilterra, la tragedia dei desaparecidos. E poi la rivoluzione cubana nel 1959, la repressione sanguinosa del movimento studentesco messicano nel 1968, la dittatura militare in Uruguay, la morte di Allende e la dittatura di Pinochet in Cile nel 1973, la presa del potere del movimento sandinista in Nicaragua nel 1979. Si capisce che in quel continente si può avere l’impressione che la storia sia una finzione violenta che cerca di sopprimere la realtà.

    

Benché raccolga interviste, Critica e finzione è un libro chiave per capire pensiero e opera di Ricardo Piglia, formatosi nel marxismo di sofisticati autori europei come Benjamin e Brecht, prima dei quali però c’è Borges, il maggiore classico della letteratura argentina del Novecento, che certo non era né marxista, né rivoluzionario e neppure vagamente di sinistra. Ma in letteratura Piglia è interessato ad altro, a quel rapporto fra intelletto critico e invenzione letteraria di cui Borges è stato un assoluto maestro. Lontano dal romanzo realistico e psicologico-sociale, Borges predilige la prosa breve e il racconto critico, filosofico, allegorico, metafisico che riesce tuttavia a lavorare usando materiali cronachistici e storici. 

      

“Borges era un lettore straordinario, è questa la sua caratteristica maggiore, la sua forza, la sua influenza. Si tratta di un lettore miope, che legge con l’occhio incollato alla pagina. C’è una foto in cui lo si vede con lo sguardo molto vicino al libro, uno sguardo assorto che cerca di immaginare cosa ci sia in quei remoti segni neri”.

   

Piglia insiste sulla letteratura-critica come “detection” (rivelazione) e su un uso impegnato, alto, culturalistico del noir e del poliziesco. Uno dei suoi autori è Edgar Allan Poe. Anche in questo, segue Borges, di cui arriva a dire che “è un populista che crede che l’esperienza sia più importante dei libri, e nello stesso tempo vive rinchiuso in una biblioteca e crede che soltanto la cultura e la lettura fondino il mondo”. Un bel conflitto, al quale credo che nessuno scrittore possa sottrarsi. La letteratura è un amore per la vita che si produce e si esprime tenendo a distanza la vita. E’ stato vero tanto per Dostoevskij che per Proust.

    

Altra zona calda nell’opera di Piglia è la sua valorizzazione e difesa della critica scritta da narratori e poeti: “C’è una resistenza abbastanza generale a considerare la critica degli scrittori come parte della storia della critica. La critica accademica difende la professione e la divisione del lavoro e guarda con un certo distacco alla critica degli scrittori, da sempre considerata arbitraria. Questo significa che la lettura di uno scrittore non obbedisce alla logica delle mode imposte dalle teorie critiche. Io ho insistito molto sulla necessità di ricostruire la tradizione della critica degli scrittori, perché ha rinnovato il dibattito sulla letteratura. Valéry, Pasolini, Auden sono stati critici importantissimi. Tale tradizione non si deve assimilare alla critica dei ricercatori, dei professori universitari, dei critici di professione e degli storici della letteratura. La specializzazione tende a relegare gli scrittori alla pura pratica, la più ingenua possibile, mentre la critica professionale si occuperà di definire contesti, relazioni e categorie…”.

   

Torno alla ragione personale per cui ho parlato di questo libro. Le righe appena citate potevo scriverle io. Anzi di sicuro le ho scritte. Più di una volta.

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