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Il “cattolicesimo pagano” di Camille Paglia per salvarsi dal relativismo

Antonio Gurrado

Il nuovo libro della femminista e l’importanza della religione

I libri di Camille Paglia vengono tradotti in modo saltuario e tardivo quindi speriamo non ci sia troppo da attendere per vedere sui nostri scaffali “Provocations”, raccolta di settantaquattro brevi saggi sulfurei pubblicata da Penguin-Random House. Anche i recensori più superficiali non possono fare a meno di notarne la vastità dei temi e si rifugiano in elenchi sensazionalistici che suonano più o meno “da Bowie a Omero, da Santa Teresa d’Avila a Gianni Versace”. C’è però il rischio, seguendo il profluvio di dettagli, di omettere la catalogazione che Camille Paglia impone a cotanto magma, secondo uno schema ascensionale: si parte infatti dalla cultura pop per culminare, tramite il gender, la letteratura, l’arte e l’istruzione, in politica e religione, ossia nei due temi sommi che considerano la società nel relativo e nell’assoluto.

 

Questa confluenza in una gerarchia che ricerca un senso più ampio nelle polemichette grevi o nelle tendenze inconsapevoli della nostra èra viene confermata da un’ampia intervista che Camille Paglia ha concesso a Modern Reformation, rivista di cultura teologica protestante patinata e un po’ hipster. Inscrive la propria mancanza di fede in Dio nel “cattolicesimo pagano all’italiana” – i suoi genitori venivano dal Sannio – ossia una cultura religiosa che, per mezzo del rutilante culto dei santi e dello sforzo di penetrare misteri incomprensibili, le ha garantito un habitus mentale propenso al senso estetico e alla precisione argomentativa. Rivendica che tale educazione le ha consentito di radicare le proprie convinzioni su un’assenza di fondamentalismo che rinviene invece lì dove non lo si aspetterebbe: nel post-strutturalismo (credere in Jahvè, scrive, è più sensato che credere a San Foucault), nell’identitarismo sessuale, nel marxismo coi suoi derivati.

 

Femminista e lesbica militante oltre che atea dichiarata, non le si può rimproverare arretratezza quando denuncia il post-strutturalismo come “metodologia cinica, riduttiva e semplicistica imposta da professori trendy che erano ingannevoli imbecilli”. La moderazione non sarà il suo forte ma la critica è ficcante lì dove argomenta che la pretesa relativista di liberare gli intellettuali da pastoie superstiziose e scornare la religione si è risolta nel “nervoso obbligo di rendere omaggio al nome di Foucault, come se fosse il Messia”. Essendo profondamente americana – nata a Endicott, stato di New York, addottorata a Yale – Camille Paglia deve dilungarsi su aspetti del cattolicesimo che in Italia conosciamo a menadito: la centralità del corpo dall’Immacolata Concezione all’Ascensione, il sottile erotismo delle frecce che trafiggono San Sebastiano e dell’estasi che coglie Santa Teresa, il capillare simbolismo inaridito dall’iconoclastia luterana. Sono elementi che contribuiscono a individuare il fulcro della crisi della coscienza contemporanea nella massificazione del procedimento post-strutturalista, ridimensionato ad abitudine popolare.

 

Camille Paglia ha sceverato la religione dalla parte dottrinale incomprensibile o ingiustificabile razionalmente, conservando però la sua solida struttura intellettuale che impone le cornici dell’oggettivo e del trascendente. La diffusione della cultura relativista ha invece voluto rovesciare la religione al grido che ogni assoluto è di per sé menzognero. Il risultato diffuso è stato la sostituzione dell’assoluto col culto di un relativo assolutizzato e in questa prospettiva interpreta le attuali manifestazioni della militanza gay, lei che era l’unica studentessa lesbica a Yale negli anni Sessanta. Alla corporeità sublime della tradizione cattolica è subentrata, ravvisa, la pretesa di divinizzare l’identità del corpo individuale e delle sue tendenze, degenerata in occasionali episodi di vandalismo fanatico ma soprattutto in aperta intolleranza “nei confronti di fede e convinzioni di molti membri della classe proletaria”, sovente ricambiata.

 

Tutto, conclude, è il frutto avvelenato del marxismo e delle sue diramazioni accomunate dall’ambizione di costruire una società politica utopica, il cui ideale si regge però sull’eliminazione di ogni orizzonte metafisico. “Descrizione inadeguata della vita umana” che “concepisce la natura non cogliendo temi profondi come il tempo e il fato”, la fonte marxista le appare l’epitome del tentativo di sostituire all’assoluto divino un assoluto umano, fondato su un’altra superstizione: credere che la responsabilità di ogni sofferenza sia delle strutture sociali per “evadere la questione centrale della religione e dell’arte: il fatto che il male sia radicato nel cuore umano”.

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