Amos Oz (foto LaPresse)

E' morto Amos Oz, ma non chiamatelo pacifista

Giulio Meotti

Se non fosse stato israeliano avrebbe vinto il Nobel. Difendeva Israele dalla guerra, con la guerra

Roma. Se non fosse stato israeliano probabilmente oggi al necrologio aggiungeremmo che è scomparso anche un premio Nobel per la Letteratura. Se ne è andato Amos Oz, il più letto, celebrato e tradotto degli scrittori israeliani. Amava Israele, ma gli piaceva sempre meno. Questo “Cechov israeliano”, il letterato che ha sondato l’anima sofferente, normale, aperta a se stessa e al mondo, dello stato ebraico, faceva parte della cultura israeliana che aveva “perso” la scommessa con la storia: la pace con i palestinesi. Vedeva ovunque situazioni “lose-lose” per Israele. Ma il grande scrittore attivista della pace non era un pacifista.

 

Durante l’Intifada dei kamikaze espresse così la sua posizione: “Due guerre sono scoppiate in questa regione. Una è la guerra palestinese per il suo diritto a uno stato. Qualsiasi persona dovrebbe sostenere questa causa. La seconda guerra è quella condotta dall’islam fanatico, a Gaza e a Ramallah, per distruggere Israele e cacciare gli ebrei dalla loro terra. Ogni persona dovrebbe aborrire questa causa”. Il motivo della sconfitta di Amos Oz fu nel non capire che le due guerre, ormai, combaciavano.

 

Nel 2006 si schierò con il governo contro Hezbollah: “Israele si sta difendendo da bombardamenti quotidiani”. E durante i giorni durissimi di Piombo Fuso: “Quale paese sopporterebbe 12 mila missili in sei anni? Bisognava reagire, non c’era alternativa”. Lo stesso farà nel 2014. “Non sono mai stato d’accordo con Gesù sulla necessità di dare l’altra guancia al nemico”, disse alla Deutsche Welle. “A differenza dei pacifisti europei, non ho mai creduto che il male supremo fosse la guerra. E’ un’aggressione, e l’unico modo per respingerla è con la forza. E’ questa la differenza tra un pacifista europeo e un israeliano come me”. Poi fornì un aneddoto: “Un mio parente sopravvissuto all’Olocaust ha sempre ricordato che la sua vita è stata salvata nel 1945 dai fucili mitragliatori”. Lo aveva detto anche negli anni 90: “La maggior parte di noi coinvolti in ‘Pace Adesso’ è stata sul campo di battaglia, e se il peggio dovesse accadere e ci ritrovassimo di nuovo con le spalle al muro, potremmo combattere ancora”. Lui aveva combattuto, carrista nel Sinai nel 1967 e poi sul Golan nella guerra del 1973. Un pacifista che difendeva la barriera di sicurezza israeliana, anche se “andava costruita sulla linea del 1967”. Per questo e altri motivi in Italia i boicottatori lo contestavano. Claude Lanzmann, il regista di “Shoah”, diceva che i soldati israeliani sono diversi, ad esempio dai parà francesi, perché “hanno i capelli lunghi”. Oz era così, con le sue rughe e i suoi occhi turchesi. Era la sua grandezza morale e intellettuale: nei momenti di crisi restare sempre all’interno della parabola tragica di quella énclave sotto assedio e dei suoi 70 anni celebrati fra la vita e la morte. Per questo si appassionavano tutti ai romanzi del figlio dei ghetti europei e dei kibbutz del Negev, anche chi ne detestava la politica. Era nato Klausner per diventare un “Oz”. In ebraico, forza.

Di più su questi argomenti:
  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.