Lo scrittore israeliano Amos Oz, autore del romanzo “Giuda” (Feltrinelli) (foto LaPresse)

Un profeta moderno

Giulio Meotti

Traditore e cantore di Israele. Ritratto di Amos Oz, lo scrittore che ha offerto al mondo la normalità sofferente dello stato ebraico. Il Cechov di Gerusalemme che faceva il cameriere in un kibbutz. I genitori parlavano dodici lingue ed erano due intellettuali vicini a Jabotinsky, il filologo che ha fondato la destra israeliana.

Yigal Schwartz, che ne ha a lungo curato i romanzi presso la casa editrice Keter, ha paragonato Amos Oz a “una sorta di monaco”. E i monaci sono attratti dal deserto. Non si può capire lo scrittore israeliano senza quello che circonda la sua città, Arad. Un ammasso di dune di sabbia e rocce rossastre, di agavi e di cactus, ciuffi di macchia mediterranea, rododendri e fichi d’India, tra larghi spiazzi di pietra nuda, d’un colore fra il bianco e il giallo. E’ la pietra con la quale re David costruì Gerusalemme. Tremila anni fa. Un deserto allucinante mosso da rilievi color ocra, trinciato da canyon tortuosi.  Il cielo manda giù da due a tre centimetri di acqua in un anno; quasi niente.

 

Ad Arad, lo stato d’Israele e Amos Oz volevano creare una società di tipo nuovo. Case abitate da contadini e giocatori di scacchi. Ogni casa è una biblioteca, un negozio ogni sette è una libreria. Arad fu pianificata come una città residenziale per professionisti e operai impegnati nelle cave nel mar Morto, nelle industrie chimiche e petrolchimiche, nel centro di ricerche nucleari di Dimona, nelle industrie e nelle università della non lontana Beersheba.

 

Per il naturalista, Arad è un paradiso, la caccia è proibita. Vi sono iene, sciacalli, coyote, antilopi Ibex, gazzelle, roditori e insettivori che non si trovano in nessun’altra parte del mondo, scorpioni, tarantole, farfalle rarissime, leopardi e linci. Il deserto, il caldo, la lontananza dal mondo abitato, fanno di Arad il simbolo affascinante della drammatica lotta di Israele per conquistare la terra necessaria a un popolo che da seicentomila unità quando nacque, nel 1948, oggi ne conta sette milioni.

 

L’Arad di Amos Oz è come una bandiera lanciata lontano, che la nazione intera si ripropone di raggiungere attaccando dal nord su tutto il fronte, con ogni mezzo, il desolato Negev. Oz ci ha vissuto vent’anni, fino alla scorsa primavera, quando è tornato a dividere il suo tempo con Tel Aviv per stare vicino ai nipoti. Ogni mattina va a fare una passeggiata di mezz’ora in quel deserto. Poi il monaco se ne torna nello studio spoglio, con la scrivania ereditata dal padre, i libri alle pareti, una poltrona e la musica di Bach. Il deserto del Negev è lo specchio dell’anima di Amos Oz: un luogo dove c’è posto per tutti, ebrei e arabi, assenti luoghi di culto e simboli politici, riflette persino l’assenza divina.

 

Per la sinistra israeliana, Amos Oz è una sorta di oracolo, di Ulisse, di profeta che porta il nome di quello biblico. Per la destra, è un collaborazionista dei palestinesi, “un bolscevico”, come lo ha definito il giornalista Uri Dan, o un “boged”, un traditore in ebraico. La prima volta che lo chiamarono così fu quando, a dodici anni, fece amicizia con un soldato inglese, prima che lo stato d’Israele venisse proclamato. La verità dello scrittore non abita in nessuna di queste due definizioni. Piuttosto, la sua storia e i suoi libri (l’ultimo in Italia “Giuda”, per Feltrinelli) sono frammenti autografi d’Israele che si ricompongono come i piani sfalsati di una tela cubista, assemblando una prospettiva dissonante.

 

[**Video_box_2**]Il grande merito di Amos Oz è stato quello di porgere al mondo la normalità sofferente e controversa d’Israele, più che i suoi miti e il suo eroismo. La società palestinese non va al cinema e non va al ristorante, è tutta concentrata sullo scontro. La società israeliana è diversa, vuole seguitare a vivere. La guerra in pace, come la pace in guerra. Di questo parla Amos Oz.  E’ stato chiamato “il Cechov d’Israele”, come lo scrittore russo di origine servile, il medico di campagna incapace di atteggiamenti solenni, il sorriso tra il benevolo e il lievemente ironico, il cantore di una vita sociale disfatta, disillusa del passato, incredula dell’avvenire.

 

Quando divenne famoso in tutto il mondo, quarant’anni fa, Amos Oz incarnò l’iconografia israeliana: lo scrittore kibbutznik e il sabra dalla coscienza politica, romantico, generoso, sentimentale. L’epopea sionista diceva che, nel momento in cui gli ebrei avessero fatto ritorno nella terra della Bibbia, sarebbero cambiati anche nell’aspetto, sotto il sole cocente di Eretz Israel. Amos Oz, figlio di genitori dai capelli bruni dell’Europa orientale, era un ragazzo biondissimo. Per questo lo chiamavano “shayges”, una parola yiddish che indicava gli ucraini che lanciavano pietre contro gli ebrei nei ghetti europei. Di quella bellezza così unica in medio oriente restano oggi  le rughe fitte e sottili ai lati degli occhi turchesi, splendidi.

 

Il nonno, in Lituania, aveva chiesto visti alle ambasciate francese, inglese e svedese. Ogni volta gli era stato rifiutato. Lo chiese anche a quella tedesca, un anno e mezzo prima che Hitler salisse al potere. E per fortuna di Oz, anche quella richiesta venne cestinata. Per questo per Oz, Israele è un miracolo. Ma anche un peccato. La pensa come Isaac Deutscher, che commentava così la nascita dello stato ebraico: “Un uomo si trovò a dover saltare dall’ultimo piano d’un palazzo in preda alle fiamme, che avevano già ucciso molti suoi familiari. Poté salvarsi, ma precipitando cadde sopra una persona spezzandogli braccia e gambe. L’uomo saltato dall’edificio non aveva nessun’altra scelta, ma quello con gli arti spezzati vide in lui la causa della sua rovina…”.

 

Anche Oz non si è mai riconciliato con l’idea che, inverandosi nuovamente nella storia, il regno di Israele avrebbe comportato una sofferenza per un altro popolo. Per questo l’emozione principale che trasmettono i suoi romanzi è quella di una perdita. In Amos Oz c’è un aspetto diurno della personalità, che è sempre israeliano, e un risvolto notturno, che è sempre ebraico. I sogni sono israeliani, gli incubi ebraici.

 

Amos Oz non è, come David Grossman, un “writer’s writer”, uno scrittore per scrittori. Non è un autore cerebrale o manieristico, incarna invece tutti i volti di Israele, la sua sensualità e la sua tragedia, i trionfi e le paure. Oz è l’unico scrittore israeliano che venga dai kibbutz, un microcosmo, come Yoknapatawpha County per William Faulkner, in cui l’amore e la morte se la giocano, un mondo in cui il fallimento umano ricopre un ruolo inevitabile. In Oz, erotismo e dolore sono limiti della stessa tensione amorosa. Il velo di parole che lo scrittore cesella, nella sua sontuosità, racchiude e porge sempre un nodo di morte e dolore. E’ la storia di Israele.

 

I suoi autori preferiti sono Gogol’ e Melville. L’unico narratore ebreo americano che salverebbe è Saul Bellow. Oz è l’unico scrittore israeliano davvero “europeo”, paragonato a Dostoevskij dalla critica di tutto il mondo e nello stesso tempo così ferocemente israeliano, nel cuore e nei tratti. I suoi romanzi sono voci di speranza e rassegnazione, vigliaccheria e realismo. I suoi personaggi sono gli intellettuali problematici, cinici e vulnerabili; gli insopportabili piccolo-borghesi narcisisti; i ragazzi la cui massima aspirazione è quella di godersi la vita allontanando “maestri” di ogni genere; i nazionalisti religiosi avidi di soldi; i legulei maneggioni e sullo sfondo qualche figura minore, giusto per dare la battuta agli altri. C’è in ogni sua pagina, con l’intelligenza e la forza di volontà del popolo ebraico, il senso della sua insicurezza, la sua eterna tragedia, i suoi desideri, il suo disappunto e il suo senso di colpa.

 

[**Video_box_2**]Amos Oz è venuto al mondo come Amos Klausner a Gerusalemme nel 1939. I genitori, Yehuda e Fania, si rivolgevano al figlio nell’ebraico della redenzione e discutevano in russo quando c’erano segreti da custodire (il padre, bibliotecario per mancato ingaggio accademico, parlava dodici lingue e ne capiva sedici). Due seguaci di Ze’ev Jabotinsky, il “lupo solitario” padrino della destra israeliana, così profondamente pessimista sulla tenuta della cultura illuminista, che vide la debolezza del liberalismo weimariano e il suo irenismo cosmopolita che si sarebbe mangiato gli ebrei, che ordinava ai suoi seguaci del Betar di strappare la bandiera nazista dal consolato tedesco a Gerusalemme, il filologo in fuga dalla persecuzione, concentrato di orgoglio e tristezza, rabbia e fierezza, apolide e rivoluzionario morto a New York nel 1940 dopo un’esistenza di lotte e sconfitte.

 

La madre introdusse il piccolo Amos all’amore per Tolstoj, Kleist, Maupassant e Flaubert. Lui resterà per sempre segnato dal suicidio di quella madre malinconica. In rivolta con il severo mondo borghese e di destra del padre, Oz se ne andò a vivere nel kibbutz Hulda, affacciato sulle colline della Giudea e fondato su un appezzamento che i pionieri ebrei avevano acquistato da un proprietario terriero arabo. Ebrei seguaci di A. D. Gordon, un visionario tolstoiano dell’Ucraina. E’ lì che Amos Klausner ha cambiato nome in “Oz”, che in ebraico vuol dire forza. Era un ragazzo emaciato, debole, confuso. Trovò nel kibbutz una replica dello shtetl dell’Europa orientale. Tel Aviv era troppo urbana. Oz voleva le mucche, il radicalismo ideologico, le mele, le discussioni su Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Ma poi ha finito per vivere di libri in un appartamento tappezzato di libri: il destino che per lui avrebbe voluto il padre.

 

Il suo primo romanzo, “Michael mio”, Oz lo scrisse di notte, chiuso in bagno, fumando una sigaretta dietro l’altra. Voleva diventare un bravo conducente di trattori agricoli, ma non riuscì a resistere alla scrittura. Arrivò il successo ma fu soltanto al quarto romanzo che decise di dedicare quattro giorni alla settimana alla scrittura, due all’insegnamento e uno, la domenica, a lavorare come cameriere nella sala ristorante del kibbutz. Per anni ha devoluto le royalty dei suoi libri al fondo economico del kibbutz. La scelta di trasferirsi nel deserto di Arad arrivò alla nascita del terzo figlio, Daniel. Il bambino soffriva di asma, aveva bisogno di un clima secco. Ma Oz cercava anche un nuovo microcosmo, un’altra piccola diaspora.

 

Nel frattempo, serve nell’esercito. Nella guerra dei Sei giorni è un carrista nel Sinai. Nel 1973, guerra dello Yom Kippur, serve al confine con la Siria, sul Golan. Mentre combatte con i siriani, inventa un metodo per non farsi decifrare i messaggi radio dall’intelligence di Damasco. Anziché chiamare le località sul campo di battaglia con nomi o numeri, propone di indicarli con i nomi degli shtetl polacchi da cui proviene la dirigenza israeliana.

 

Durante il servizio militare, un giorno Oz lesse un articolo del primo ministro David Ben-Gurion su Spinoza. Dissentì dall’interpretazione che ne dava il fondatore di Israele e scrisse un articolo per replicargli. Il giorno dopo la segretaria di Ben-Gurion chiese a quel giovane scrittore di presentarsi nella residenza del primo ministro. La segretaria gli disse: “Ricordi che è un uomo terribilmente occupato. Non prenda più di dieci minuti del suo tempo”. Oz rimase in piedi di fronte alla sua scrivania mentre Ben-Gurion camminava avanti e indietro, facendo a pezzi la sua confutazione. Parlava e parlava, e i dieci minuti svanirono rapidamente. Oz non disse nulla. Alla fine Ben-Gurion gli chiese: “Ha fatto colazione?”. E tirò fuori una brocca di succo d’arancia, gli versò un bicchiere, e continuò la tirata. A un certo punto la segretaria interruppe, ricordandogli di un altro incontro. Ben-Gurion si girò e disse: “Non vede che sto avendo una delle conversazioni più interessanti che abbia avuto da anni?”. Fu l’inizio di una grande amicizia.

 

Negli anni Novanta, Shimon Peres disse che aveva tre possibili eredi alla guida del Partito laburista: il generale Ehud Barak, Shlomo Ben-Ami e Amos Oz. La sua risposta fu che non sapeva pronunciare le parole “no comment”, quindi non avrebbe mai potuto fare il politico. C’era anche chi voleva farne il “Václav Havel israeliano”, l’artista presidente.

 

E’ con un articolo sul quotidiano laburista Davar che Oz chiede per la prima volta la spartizione della terra di Israele con i palestinesi. Per la seconda volta lo accusano di “collaborazionismo”. Nel 1978,  fonda Shalom Achshav, Pace Adesso, e ipnotizza il paese con lo slogan messianico di “terra in cambio di pace”. Ma Oz è anche un pragmatico a cui non è mai piaciuto Yasser Arafat, che ha definito “un misto di Che Guevara e Saladino”, e che difende la barriera di sicurezza israeliana, anche se “andava costruita sulla linea del 1967”.

 

[**Video_box_2**]Gli israeliani oggi lo considerano il loro maggiore scrittore, ma come intellettuale è tutto fuori dal “consensus”. E’ qui il fallimento politico di Oz come specchio e banco di prova dell’élite fondatrice d’Israele e di tutti i suoi figli. Oz ha sempre cercato di portare alla luce le ferite del paese, le sue contraddizioni, ma sempre di più in modo considerato sovversivo e sleale dalla maggioranza dell’opinione pubblica, che si è sentita profondamente ferita da alcune sue prese di posizione. Come quando Oz firmò un appello per boicottare il centro culturale della città di Ariel, ventimila abitanti nel cuore dei Territori, la Samaria biblica. Non è considerato fair in un piccolo paese sotto assedio come Israele. O come quando scrisse una lettera un po’ troppo accorata a Marwan Barghouti, il capo di Fatah durante la Seconda Intifada, condannato a cinque ergastoli per la partecipazione materiale a numerosi attentati terroristici. O ancora, quando predisse, all’uscita di Israele dal Libano nel 2000, che la parola “Hezbollah” sarebbe scomparsa dal vocabolario. O quando nel 2003, mentre i kamikaze palestinesi insanguinavano le sale da ballo e i ristoranti di Haifa e Gerusalemme, andò a cogliere olive con i contadini palestinesi. Un gesto generoso, ma per l’opinione pubblica israeliana non è altro che disfattismo.

 

Eppure la scorsa estate, durante la guerra di Gaza, Oz non ha esitato a schierarsi con il suo governo nella campagna militare contro Hamas: “L’unico modo per respingere l’aggressione è la forza. Un mio parente sopravvissuto a Theresienstadt mi ha ricordato che la sua vita è stata salvata nel 1945 non dai manifestanti per la pace con cartelli e fiori, ma dai soldati sovietici con i mitra”. Tutto si tiene in Oz, il patriota come il traditore.

 

Cosmopolita a proprio agio nei salotti europei e nelle chattering classes, sofisticato e bohémien, Amos Oz è uno dei grandi vanti del pluralismo intellettuale israeliano, pegno della grande eccezione ebraica in un medio oriente autocratico, buio e fondamentalista. Ma è anche il simbolo di una certa, pericolosa malinconia della bohème pacifista israeliana. Fra i detrattori di Oz, infatti, il più acuto e duro non proveniva dalla destra religiosa, ma dall’establishment letterario: era il maggiore critico culturale d’Israele, quel Baruch Kurzweil morto suicida. Kurzweil scrisse che “Michael mio”, il primo, il più discusso e controverso romanzo di Oz, “è più pericoloso per Israele di tutte le armate arabe messe insieme”. La protagonista del libro, Hannah Gonen, è rimasta vergine e pura per il geologo Michael fino al matrimonio. Ma nei suoi sogni, Hannah chiede ai gemelli arabi suoi amici, Khalil e Aziz, di stuprarla. Kurzweil capì che c’era qualcosa di sinistro, e allo stesso tempo di ammaliante, di torbido, nell’affresco dei sensi di Amos Oz, in questo desiderio della vittima di essere presa da una forza predatrice, avversa.

 

Un gigantesco scrittore dunque, ma come ha detto di sé, anche “il congiurato della tribù” d’Israele.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.