Foto LaPresse

Amos Oz ha estratto l'oro dal piombo con le parole

Annalena Benini

E' morto lo scrittore israeliano che ha scritto di sé per scrivere di Israele e di tutti noi. L’autobiografia piena d’amore e di dolore e l’ultimo suo libro tradotto in Italia, “fino alla morte”

Con tutto il rispetto per Tolstoj, dice Ilana, la protagonista de “La scatola nera”, romanzo epistolare di Amos Oz, non c’è una felicità che assomiglia all’altra.

 

La felicità degli esseri umani uniti gli uni agli altri, la felicità di mangiare noccioline su un balcone di Gerusalemme guardando il tramonto, l’immenso desiderio di vivere nonostante la disperazione. “In quella felicità ciascuno ha impresso le proprie sofferenze e i torti subiti. Come estraendo l’oro dal piombo”. Amos Oz, grandissimo scrittore israeliano, ha estratto l’oro dal piombo con le parole. Ha scritto di sé, per scrivere di Israele e di tutti noi. Ha scritto di questa instancabile, accidentata, smaniosa ricerca di un senso all’esistenza. “Mi ricordo che ti chiesi che cosa volevi davvero, Shemuel, e tu mi dicesti che volevi sapere che senso aveva”. Tradotto dall’ebraico da Elena Lowenthal, Amos Oz ha cercato l’umanità intera in ogni libro, in ogni saggio. Con ironia, con passione, con l’idea epica e quindi piena di compassione del rumore che fa la vita, anche mentre si muore. L’amore e la tenebra, il desiderio, la morte, l’infanzia, e il tradimento come spinta per cambiare se stessi e il mondo. E sempre, sempre, il senso di colpa e la nostalgia. “Imparai a leggere praticamente da solo, ero ancora molto piccolo. Che altro avevamo da fare? Alle sette di sera eravamo già chiusi in casa per via del coprifuoco imposto dagli inglesi a tutta la città”. Spesso saltava la corrente elettrica, negli anni Quaranta del secolo scorso a Gerusalemme, ma anche quando non saltava si viveva comunque dentro una luce vaga, perché era immorale usare una lampadina da quaranta watt quando si poteva leggere, cavandosi gli occhi, con una da venticinque (“che cosa avrebbero detto i vicini, vedendo un’illuminazione da gala?”).

 

Il romanzo autobiografico di Amos Oz, “Una storia d’amore e di tenebra”, pubblicato nel 2002, è un libro talmente pieno d’amore e di dolore e di scrittura grandiosa, che perfino il racconto del suicidio della madre, quando Oz aveva dodici anni, è attraversato dal tentativo straziante e sublime di trovarne il senso, una vicinanza, addirittura una giustizia. “Qualche anno dopo, nel ’48, durante il cannoneggiamento della legione della Cisgiordania su Gerusalemme, rimase uccisa sul colpo, colpita direttamente dall’obice, in una sera d’estate, anche un’altra amica di mia madre, Pari Yanai, che in fondo era solo uscita un momento in cortile a prendere lo straccio e il secchio”. Gli uomini di fronte alla morte, il passaggio all’età adulta, il bilancio delle occasioni perdute. Non c’è una pagina di Amos Oz che non sia densa di riflessione, sentimento, ironia, senso della storia e delle radici, della terra. “Caro amico, Israele è la nostra terra, la Palestina è la vostra. Chiunque rifiuti questi due semplici fatti è cieco o malvagio”, scrisse nel 1996 sulla New York Review of Books, in “Lettera a un amico palestinese”. E questa semplicità produce complessità nei giudizi e nella visione, profondità nell’analisi, pietà per tutti.

 

“Ho ancora due o tre cosette da dire. Il tempo passa. La questione sta tutta qui: quali parole usare”.

 

Ora che Amos Oz è morto, a settantanove anni, tre figli, diciotto libri, è commovente che sia questo l’incipit del libro tradotto per ultimo in Italia, sempre da Feltrinelli, che si intitola: “Finché morte non sopraggiunga” (il titolo originale, “Ad Mawet”, significa: fino alla morte). E’ un libro in realtà pubblicato nel 1971, quando Amos Oz aveva trentadue anni. Un’amica di sua madre lo lesse e gli scrisse una lettera: mi sembra così familiare, conosciuto, mi ha turbato, ora mi tornano in mente più che mai le parole di tua madre. “Spasmi e malinconia per qualcosa che non ha posto nel mondo”. La letteratura carnale e profonda di Amos Oz ha cercato e trovato un contatto fra questi due dolori: quello che non ha posto nel mondo e quello che disperatamente, con ostinazione, cerca il suo posto nel mondo.

Di più su questi argomenti:
  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.