Opera di Giovanni Gasparro

Che cosa può offrire l'arte sacra contemporanea a chi cerca il trascendente

Antonio Gurrado

Ad Ascoli (sino al 13 gennaio al palazzo dei Capitani del Popolo) la mostra curata da Camillo Langone

Un tram passa alle spalle di un San Francesco quasi piegato dallo sforzo di contenere l’abbraccio del lupo che, ammansito, gli è saltato addosso con tutt’e quattro le zampe. Una scatola di legno dell’hotel Sacher di Vienna contiene una piccola natività; altrove l’asfalto bagnato riflette la luce di un’apparizione mariana. Bolle di sapone circondano Gesù Bambino mentre viene allattato, e poi un tizio beve al tavolino del bar mentre il Crocifisso viene deposto, una griglia da barbecue è pronta per graticolare San Lorenzo, libri con l’etichetta della biblioteca pubblica si accatastano ai piedi dello scrittoio di San Girolamo. Si tratta di alcune delle opere (rispettivamente di Stefano Di Stasio, Vanni Cuoghi, Davide Frisoni, Federico Guida, Federico Lombardo, Giuliano Sale e Rocco Normanno) esposte da ieri al 13 gennaio al palazzo dei Capitani del Popolo di Ascoli Piceno, nella mostra “L’arte che protegge” curata dal nostro Camillo Langone, con catalogo stampato da Silvana editoriale. Le ho menzionate perché sembrano dimostrare nell’anacronistica urgenza degli oggetti di uso comune il senso profondo, quasi inconfessato, di questa mostra; che non si propone soltanto una ricognizione dello stato dell’arte sacra contemporanea in Italia ma indaga sottilmente il rapporto fra fede e tempo. Il comune denominatore di queste opere non è la volgare attualizzazione bensì la permanenza, il principio secondo cui, se si ripone la fede in un assoluto, il suo valore travalica il contesto storico e vive di una continua contemporaneità.

 

In questa luce vanno lette opere temerarie che potrebbero sconcertare i bigotti. Enrico Robusti ha piazzato la Trasfigurazione in un’esplosione di effetti speciali da fantascienza spaziale; Daniele Vezzani ha dipinto una sacra maternità in cui la Madonna e Gesù infante sono sua moglie e sua figlia a casa loro; Marco Cingolani ha ritratto un extraterrestre dalle orecchie aguzze che viene battezzato al fonte. Sono tre tentativi di esplorare il tempo nelle sue forme più estreme – l’immaginarietà dell’ipotetico, la domesticità del sempre, l’imprevedibilità del futuro – ovvero di affermare che la fede non conosce limite che la costringa al qui e ora, quindi al già visto e al già digerito che incontriamo nella fruizione quotidiana delle nuove chiese, dove il kitsch spericolato si mischia al più insensato avanguardismo. Pensate al tempio-astronave di San Giovanni Rotondo, se volete esempi eclatanti.

 

Langone ambisce al modello di Luigi Carluccio, critico che nel 1978 allestì una rassegna del sacro nell’arte contemporanea, con dentro Lucio Fontana e Fausto Pirandello fra gli altri, oltre a Ercole Pignatelli la cui forza espressiva ha solcato indenne i decenni. Lavorando così al catalogo ne fa emergere due aspetti che colpiscono oltremodo, a cominciare dalla varietà religiosa degli autori. Alcuni realizzano opere per devozione privata, come quella che trabocca dall’espressionismo di Giovanni Gasparro la cui produzione cattolicissima, se presentata integralmente, sarebbe bastata da sola a riempire dieci mostre e forse dieci Ascoli. Figurano tuttavia anche autori per nulla religiosi, come lo stesso Pignatelli: l’ottantenne pittore leccese ha realizzato un Cristo nella vigna che mette insieme cielo e terra con la stessa corposa minuzia di una pagina di padre Daniello Bartoli, a conferma che lo Spirito soffia dove vuole. O, per gli esperti d’arte, a conferma di un rinnovato fascino dell’arte figurativa della quale l’arte sacra è espressione inevitabile, visto che il Cristianesimo è la religione dell’Incarnazione, Incarnazione significa corpo e corpo significa figura, qualcosa che si può vedere e toccare.

 

Il secondo aspetto è che la stragrande maggioranza delle opere esposte (molte più di quelle che cito) non sono frutto di committenza ecclesiastica, anzi pare che la chiesa non abbia mai commissionato opere a quasi nessuno degli autori inclusi. Non è strano; è la conseguenza dell’incontro fra più fattori che combinati possono far culminare una certa pigrizia in necrosi. Anzitutto il fatto che in questo tempo profano il pubblico sembri apprezzare l’arte sacra solo quando la storia la pone a distanza di sicurezza, quindi fa la fila per Piero della Francesca ma accetta bovinamente che la parrocchia sotto casa ospiti venerabili croste o novità orrende. Poi il pauperismo che spinge la chiesa a commissionare sempre meno per timore che la ricerca del bello (e della viva presenza di Dio nel bello) venga scambiata per sfarzo inutile e grossolano. Infine il fatto che il cattolicesimo si sia richiuso in una bolla, confinando la propria millenaria cultura multiforme in un recinto in cui intellettuali e artisti cattolici parlano ad altri intellettuali e artisti cattolici, senza possibilità di sviluppo da quest’asfissia e con il risultato che le migliori intelligenze dell’arte, della musica eccetera reputino squalificante il lavorare per la chiesa.

 

Il rapporto fra chiesa e arte è un problema non particolarmente caro alle alte gerarchie vaticane, parrebbe, fatta salva la notevole eccezione di Paolo VI. Questi non solo mise insieme una collezione (aperta al pubblico nel 1988) di settemila opere di Matisse, Chagall, Picasso, Dalì, Magritte e così via ma, nel 1964 in Cappella Sistina, dichiarò di voler “ristabilire l’amicizia fra la chiesa e gli artisti”. L’amicizia, spiegava, era stata rovinata dall’imposizione di un canone ecclesiastico fondato sull’imitazione e sulla tradizione, e in mancanza di artisti pronti a chinare il capo la chiesa era ricorsa “ai surrogati, all’oleografia, all’opera d’arte di pochi pregi e di poca spesa” anziché a “cose grandi, cose belle, cose nuove, cose degne di essere ammirate”. La colpa della chiesa, ammessa da Montini e sottintesa da questa mostra, è aver dimenticato che gli artisti sono creatori e che senza creazione non c’è mondo, senza mondo non c’è vita, senza vita non c’è fede.

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