Le manifestazioni del Sessantotto in Francia (foto LaPresse)

I quarantenni rassegnati guardino al '68 per rivoluzionare il presente

Simonetta Sciandivasci

“Le pietre verbali” di Maria Corti, un libro contro “i valori medi” per ricordare ai giovani che loro sono al mondo per ravvivarne il linguaggio

Parliamo di generazioni. Che si guardano, si castigano e, certe volte, provano ad andare insieme incontro alla sera, non per ascoltarsi, come il vecchio e il bambino di Guccini, ma per concordare su una lamentela e timbrare una dichiarazione d’impotenza congiunta. Non è sempre stato così, ma lo è da molti anni. Del libro “I Rassegnati. L’irresistibile inerzia dei quarantenni” di Tommaso Labate, Antonio Polito ha scritto, sul Corriere, che ha il merito di individuare le colpe degli anni Novanta e il modo in cui l’allora spirito del tempo ha fatto del male al futuro. E così ora anche gli anni Novanta, che sono il nostro ieri più prossimo, hanno le loro responsabilità, impacchettate e spiegate bene da un detrattore “brillantemente autobiografico”. C’è armonia di metodo: Polito le colpe di tutto le dà agli anni Settanta. Labate scrive nel libro che 15 quarantenni su 15, interrogati su cosa sognano, hanno risposto: “In che senso?”. Fessi e illusi noialtri, che ci siamo emozionati quando Marcello Fonte, quarantenne, dopo aver vinto la Palma d’oro a Cannes, ha detto: “Sognavo l’arte da una cantina occupata”.

   

Il problema è nello sguardo, nella disposizione a pensarla come Franco Fortini che scrisse, nell’introduzione a “Dieci Inverni” (ripubblicato da Quodlibet), che l’odio per il presente non deve essere mai separato dall’amore per l’avvenire: solo così si può mantenere una “scontentezza attiva” e ricordare che “il presente è il campo dove si decide la salvezza”. Doveva avere la medesima idea del futuro, e soprattutto del presente, Maria Corti quando decise di scrivere un libro sul Sessantotto “per i giovani di oggi, pacifici e passivi, affinché conoscessero quel periodo e il livello alto di creatività dei sessantottini”, come disse lei. Era il 2001, lei aveva 86 anni, sarebbe morta l’anno dopo e non aveva niente da recriminare, ma tutto da consegnare. Il libro si chiama “Le pietre verbali” (ripubblicato da Bompiani) e racconta il Sessantotto come lo visse e vide lei, da insegnante tra Milano e Pavia, innamoratissima della giovinezza come mezzo essenziale e sufficiente per fare tutto (“Noi siamo giovani, ti pare poco?”, fa dire a un ragazzo per disincagliare una ragazza da un discorso “da fossile” sulle famiglie italiane, i loro avi, Dio, la chiesa). Non conta l’elogio di quel momento, dei cui meriti e demeriti son pieni libri, mostre, anniversari, ricordi. Non conta l’ideologia, né cosa si provò a fare, in cosa si riuscì o in cosa si fallì: non c’è una riga su questo. Conta, di questo libro, che una quasi novantenne poco prima di morire si sia messa a scrivere per ricordare ai giovani che loro sono al mondo per ravvivarne e rivoluzionarne il linguaggio; che osservandoli e trovandoli spenti, non si sia messa a rintracciare colpe ed errori di chi li ha preceduti, non abbia voluto incitarli a niente, ma abbia scelto una storia, una fiaba da raccontare. “Mi piacciono le fiabe, raccontane altre”, dice il bambino al vecchio della canzone di Guccini, un vecchio che pure “parlava e piano piangeva” e “seguiva il ricordo di miti passati”.

  

Il Sessantotto servì a Maria Corti per riflettere su come gli adulti tradiscano il bambino per l’uomo e, di riflesso, i politici non siano in grado di capire i giovani perché “il mestiere li ha portati a creare un mondo di qualità collettive, dette sociali, da cui è escluso il privato dei singoli”. Vale ancora oggi, forse addirittura di più allora, non solo perché a rifiutare il presente in nome del domani sono tanto i giovani quanto gli anziani, ma pure perché se nel Sessantotto scoppiarono “di lesa maestà” soprattutto la famiglia e la scuola, ora sembra prossimo a scoppiare di lesa maestà tutto quanto. Rivolgere lo sguardo al passato per riallacciarsi a un suo merito anziché a un suo demerito è un tentativo di rianimazione politica che a Maria Corti riuscì in pieno. Sarebbe utile anche oggi quel suo tentativo? Oggi che ogni energia vitale di gioventù sembra seppellita al punto che sono i settantenni a incitare i ventenni a scendere in piazza e fare la rivoluzione? Scrive a un certo punto Maria Corti che il lascito del Sessantotto è stato compromesso anche dalla poca volontà che i giornalisti ebbero di capirlo e raccontarlo, abituati com’erano a offrire ai lettori ciò che desideravano e cioè “i valori medi”, mica le passioni febbrili; dall’incapacità di riportare il complesso contrasto, molto sentito dal movimento, tra espressione e comunicazione. Quest’anno sono cinquant’anni dal Sessantotto: li abbiamo trascorsi tutti a farci raccontare valori medi, lamentele medie, rassegnazioni medie, generazioni medie.

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