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L'unico modo per uscire dalla tristezza di fine estate è lasciare arrivare l'autunno

Simonetta Sciandivasci

Ma soprattutto leggere “Rockaway beach” di Jill Eisenstadt, romanzo sullo strazio e la salvezza di crescere, scegliere e sbagliare

C’è un verso di una canzone dei Baustelle che dice: “C’è qualcosa nella fine dell’estate non so bene che cos’è, e non riesco a respirare”. E c’è un romanzo di Jill Eisenstadt – “Rockaway Beach”, uscito nel 1987 e pubblicato ora in Italia da Edizioni Black Coffee – che lo racconta perfettamente cos’è che ci soffoca, ogni settembre, e ci immalinconisce e ci fa ammalare di sindrome del rientro e di end of summer blues e ci fa litigare e persino lasciare e divorziare (una ricerca di due anni fa dell’università di Washington rivelò che il picco di matrimoni che scoppiano si registra sempre dopo il controesodo estivo).

 

E’ questo: lo sfascio dell’illusione che si possa vivere senza che le proprie azioni abbiano conseguenze, dentro una parentesi slegata dal resto, che renda le cose assolute e perfette. A veder bene, con occhi adulti (non imborghesiti: adulti), anche questo intende Virna Lisi quando, nella scena finale di “Sapore di Mare” (1983), al figlio che le domanda com’era, quando era giovane lei, gli risponde: “Era diverso. Ci batteva il cuore. Ricordo che ci batteva il cuore”.

 

I protagonisti di “Rockaway Beach” sono adolescenti degli anni Ottanta, a New York, e hanno il battito accelerato, un “martello pneumatico che se lo controlli col senno di poi non batterà mai”, come in quella canzone di Raf degli anni Novanta. Quattro ragazzi che sciupano le giornate della loro ultima estate prima di diventare grandi, prima del lavoro o del college. Bevono moltissimo, tanto che persino i tassisti li rimproverano (e sarà che i tassisti newyorchesi uno se li immagina tutti come quello che in “Money” di Martin Amis dice a John Self, appena atterrato da Londra, che bisogna ripulire l’America dai neri e che lui sta organizzando delle squadre di picchiatori per farlo). Lavorano come bagnini, si accontentano delle cose minime e sciatte. Ammirano un barbone che eccelle nel fare impennate con una sedia a rotelle. Perdono la testa per ragazze che collezionano lumache e sono bravissime a fare i palloncini con i chewingum e di loro dicono agli amici che sono pericolose, “una specie di trepidazione”, un “tutto può succedere in qualsiasi momento”. Non credono in niente, a parte Joe, che “crede in Dio nella misura in cui rischia di finire all’inferno”.

 

E poi c’è Alex, che più guarda i suoi amici e più capisce che vuole diventare grande, che desidera che le sue azioni abbiano un peso, che siano giuste o sbagliate, importanti o inutili, encomiabili o punibili, ed è per questo che andrà al college e per anni si dovrà mettere alle spalle quei perdigiorno, quel rock, gli anni Ottanta, il vanto del vuoto, il reflusso e il riflusso, il mare, l’estate, il cuore a mille, i tuffi quasi mortali, i genitori ininfluenti, inascoltati, perduti anche loro.

 

Rockaway Beach è uno degli sbocchi di New York sull’oceano Atlantico. Oggi ci si arriva con il traghetto, ma negli anni Ottanta i collegamenti erano pessimi e laggiù (pieno Queens) s’incontravano solo surfisti e adolescenti come questi. Romantici e nauseabondi. Illusi che vivendo arrotolati si possa impedire alla vita di dividersi in un prima e un dopo (prima e dopo la scuola, prima e dopo l’amore, prima e dopo il lavoro, prima e dopo la perdita, prima e dopo un figlio, prima e dopo la sbronza) e si possa rimanere sospesi a lasciare che le cose accadano e, presto o tardi, si ricordino di colpirci, di modo che la responsabilità dei colpi sia sempre e solo del caso, di qualcun altro, di qualcos’altro.

 

L’estate ci illude che si possa stare al mondo dribblando e “Rockaway Beach” per metà ci racconta la tenerezza e la bellezza di questa bugia, per l’altra metà ci prende a secchiate d’acqua gelata e ci ricorda che è lo scopo a farci umani e che è la possibilità di scegliere lo scopo sbagliato (come facciamo quasi sempre) a farci vivi.

  

Jill Eisenstadt fece parte, negli anni Ottanta, con Jay McInerney, Bret Easton Ellis, Tama Janovitz, Donna Tartt dei “literary brat pack”, ragazzacci che l’America accusava di passare più tempo a bere in giro che a scrivere. Di quegli anni, Jill Eisenstadt ricorda le feste pazze dentro i monolocali, la cocaina, l’eco della controcultura e la fame di eccesso: a un certo punto diventò tutto troppo e invalidante. A un certo punto, per continuare a scrivere, dovette scegliere di crescere. E di lasciare che l’autunno e poi anche l’inverno arrivassero.

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