sciate che tutto vi accada” (foto Renato Ghiazza/Castello di Rivoli)

Metamorfosi al castello

Giuseppe Fantasia

Uomo e natura nelle opere di giovani emergenti. E la collezione permanente d’arte contemporanea che dialoga con capolavori di Giorgio de Chirico. In mostra nelle antiche sale del Museo di Rivoli

Sono poco meno di venti i chilometri che separano il centro storico di Torino dalla vicina Rivoli, ma il fascino discreto e a suo modo austero della città sabauda ricca di antico e moderno sembra non finire mai sul lungo corso Francia che ci porta in collina. Lì, c’è una struttura imponente, costruita a sua volta sui resti di un castello dell’epoca medioevale su progetto di Filippo Juvarra per Vittorio Amedeo II di Savoia. E’ il castello di Rivoli che, dalla sua posizione strategica e circondato dal verde, domina l’intera vallata, divenendo così un simbolo anch’esso riconoscibile, al pari – quasi – della storica e centrale Mole Antonelliana, della basilica di Superga o della chiesa di Santa Maria del Monte dei Cappuccini.

 

Nel Seicento, fu Carlo Emanuele I a voler edificare un grande palazzo proprio a Rivoli, il luogo in cui era nato, ma il progetto non venne mai portato a termine, rimanendo in costruzione solo la parte centrale del palazzo con l’atrio e gli scaloni d’onore. Entrato a far parte dei domini sabaudi fino dal 1247, il castello seguì le sorti della dinastia fino al 1883, quando venne venduto alla città di Rivoli perché mantenerlo, per i Savoia, era divenuto un onere troppo grande. Si dovettero aspettare ancora molti anni per assistere a un’imponente opera di risanamento e alla quasi successiva apertura al pubblico quando – nel dicembre del 1984 – venne inaugurato il Museo d’arte contemporanea con le sue trentotto sale che oggi sono teatro di numerosi eventi, di presentazioni, di convegni e – ça va sans dire – di mostre.

 

Entrato a far parte dei domini sabaudi nel 1247, il castello venne venduto nel 1883 alla città di Rivoli: era troppo oneroso da mantenere

Se, come vi consigliamo, visiterete quell’imponente struttura, una volta entrati e lasciati dietro di voi i grandi archi del cortile, fate attenzione e guardate per terra, perché è da lì che inizierà lo stupore. Sotto i vostri piedi c’è un tappeto che non è un tappeto qualunque: è Il Belpaese, l’opera che riproduce la scatola rotonda dell’omonimo formaggio Galbani, un altro attacco alle ideologie e allo stereotipo identitario realizzato da Maurizio Cattelan nel 1994. Una volta arrivati al primo piano, dalla sala Orfeo e le Menadi – anticamera dell’appartamento del re – fino alla più grande e più importante, la camera delle Gabbie, dalla camera dei Trofei a quella delle fatiche di Ercole – decorata da Filippo Minei tra il 1721 e il 1722 con una volta centrale con Giunone, Marte e Giove fluttuanti su nubi – lo spettacolo ha inizio. Stanza dopo stanza (non perdete quella degli Stucchi con i busti degli imperatori romani e quella dei Putti Dormienti con la volta impreziosita da più di quattromila foglie d’oro realizzate da Sebastiano Barberis), la bellezza e l’opulenza la faranno da padrone.

 

Nelle prime, poi, fino al 27 maggio prossimo, proprio accanto a opere d’arte contemporanea troverete alcune tele di Giorgio de Chirico che non potranno lasciarvi indifferenti. Fanno parte di una mostra – Giorgio de Chirico. Capolavori dalla Collezione di Francesco Federico Cerruti – a cura di Marcella Beccaria e Carolyn Christov-Bakargiev, direttrice del Castello e della Gam, la Galleria d’arte moderna di Torino. Per la prima volta, proprio in questa occasione, sono esposte in pubblico quelle tele che fino a pochi anni fa erano celate nella Villa Cerruti di Rivoli, la dimora voluta dall’imprenditore e collezionista genovese, ma torinese d’adozione (1922-2015), negli anni Sessanta a uso esclusivo della propria collezione privata, che dal prossimo anno sarà aperta al pubblico diventando così il nuovo polo del museo. Si tratta di una collezione privata di altissimo pregio che include quasi trecento opere scultoree e pittoriche che spaziano dal Medioevo al contemporaneo, con libri antichi, legatorie, fondi d’oro, e più di trecento mobili e arredi tra i quali tappeti e scrittoi di celebri ebanisti, per non parlare poi dei capolavori che vanno dalle opere di Segno di Bonaventura, Bernardo Daddi e Pontormo a quelle di Renoir, Modigliani, Kandinsky, Klee, Boccioni, Balla e Magritte fino a Bacon, Burri, Warhol, De Dominicis e Paolini.

 

La metamorfosi come un passaggio, un allontanamento da sé, “un movimento che coincide con il respiro della natura”

Otto quadri di de Chirico, provenienti da quella collezione, sono stati inclusi nella mostra, opere che spaziano dal 1916 al 1927, uno spaccato sulla inesauribile capacità metamorfica di quel genio che nel 1911, anche se per pochi mesi, frequentò Torino portandosi poi per sempre con sé il ricordo di quella città “costruita per le dissertazioni filosofiche”. Divenne, infatti, l’autore di un’arte in cui è l’intelletto a dominare sull’emozione unendo con visionaria originalità la filosofia della Grecia mitologica con l’algida classicità del pensiero nordico. Le sue sono immagini enigmatiche che rimandano alla sospensione del tempo come all’immobilità, alla fragilità della coscienza come all’inesprimibile fino allo smarrimento, esito della sua profonda cultura filosofica, letteraria e figurativa. Precursore del Surrealismo, ebbe un grande interesse per il tema della metamorfosi nel mondo antico, “per quelle rifrazioni enigmatiche di senso che prima di sciogliersi nel nulla suggeriscono figure dell’esistere”, come spiega al Foglio la Beccaria, che ci guida durante il percorso, un inedito viaggio nel tempo che mette in relazione le opere di de Chirico con alcune tra le maggiori opere di arte contemporanea della collezione permanente del museo, “un vertiginoso gioco tematico di assonanze che – aggiunge – “propongono allo spettatore contraddizioni e corrispondenze che gettano ulteriore luce sulla poetica di quell’artista originario di Volos, ma romano d’adozione e sulla sua inesauribile eredità culturale”. L’Architettura dello Specchio (1990) di Michelangelo Pistoletto, nella sala cinque, in relazione con Autoritratto metafisico (1919), Zig Zag e Mancorrente m.2 nella sala 13 – entrambi realizzati da Alighiero Boetti nel 1966 – collegati a Interno metafisico (con dolci ferraresi) (1917) e Novecento (1997) – il cavallo in tassidermia di Maurizio Cattelan che pende imbragato dal soffitto in relazione con i Due cavalli (1927) – ne sono l’esempio. Queste ultime opere le troverete alla fine del vostro percorso, ma prima ce ne sono altre da non perdere come la Composizione metafisica (Muse metafisiche) del 1918, allestita in relazione con Casa di Lucrezio (1981) di Giulio Paolini; Il trovatore (1922) con Il saluto degli argonauti partenti (1920); l’Interno metafisico con faro (1918) con le architetture immaginifiche di Franz Ackermann, la Composizione metafisica del 1916 con le opere di Fabio Mauri.

 

“La riscoperta della mitologia classica in de Chirico non avviene come nel Rinascimento per ricostruire una storia del passato, ma per uscire dalla Storia, quella stessa che proprio dal Rinascimento ci ha portato a quell’accelerazione mortifera e ingestibile che arriva alla nostra contemporaneità”, precisa, tra un saluto e l’altro agli ospiti che iniziano ad arrivare per l’inaugurazione, la direttrice e curatrice Christov-Bakargiev. ”De Chirico – aggiunge lei che in passato ha curato anche la 14esima Biennale di Istanbul e diretto “dOCUMENTA 13” – è nietzschiano, antimoderno e contro lo storicismo, un artista che rinnovando il concetto di un tempo circolare, si rifà alla mitologia e alla pervasività del concetto di metamorfosi che la caratterizza”.

 

Otto quadri, realizzati tra il 1916 e il 1927, del pittore che vedeva in Torino una città “costruita per le dissertazioni filosofiche”

Il tema della metamorfosi è anche alla base di una mostra che propone un approfondimento relativo alle poetiche di giovani artisti emergenti a livello internazionale. Si intitola Metamorfosi – Lasciate che tutto vi accada, ed è ospitata in contemporanea nella Manica Lunga del castello fino al 24 giugno prossimo. A curarla, Chus Martínez (autrice anche del catalogo assieme a Marianna Vecellio) che con particolare attenzione è riuscita a riflettere sul rapporto tra esseri umani e natura nel mondo digitalizzato e globalizzato contemporaneo.

 

Nicanor Aráoz, Ingela Ihrman, Eduardo Navarro, Reto Pulfer, Mathilde Rosier, Lin May Saaed e Ania Soliman sono i sette artisti, di età compresa tra i trenta e i quarant’anni o poco più, che con i loro progetti inediti hanno ricercato nell’esperienza metamorfica l’intero ventaglio del sentire e quella sottile percezione dell’indeterminato cha ha come sfondo l’enigma. Alle loro opere se ne affiancano altre come I Have Left You The Mountain – a cura di Simon Battisti, Leah Whitman-Salkin e Åbäke, già esposto nel Padiglione Albania della Biennale di Architettura di Venezia del 2016 – e il video Army of Love di Alexa Karolinski e Ingo Niermann, commissionato dalla IX Biennale di Berlino nel 2016. Le loro sono installazioni, sculture, azioni performative, dipinti e video dove è spesso il colore a dominare, opere d’arte in un museo d’arte che invitano l’osservatore alla percezione che ciò che va al di là della parola umana può esprimersi solo nella natura, “una parola che oggi incarna una rivoluzione radicale nel modo in cui ci poniamo nei confronti della vita organica e non organica, nel modo in cui intendiamo il genere, la riproduzione, il potere e la vita”, ci spiega la curatrice spagnola originaria di La Coruña e attuale direttrice dell’Accademia Fhnw d’arte e disegno di Basilea.

 

Una inesauribile eredità culturale. La riscoperta della mitologia classica “per uscire dalla Storia”, dice la curatrice

“Parlare di natura significa parlare di arte”, ha scritto nel catalogo, una frase che ci ripete anche a voce, “ma di un’arte senza il fardello delle istituzioni, senza le storture ideologiche delle politiche culturali, un’arte come pratica che appartiene agli artisti che hanno una missione che non è determinata dalla forma o dall’invenzione di nuovi gesti, ma da una scrupolosa esplorazione dei codici della vita”. La metamorfosi non è per lei un semplice cambiamento ma è un passaggio, un allontanamento da sé, “un movimento che coincide con il respiro della natura che con la sua presenza ricca di suoni rinvia al transitorio e a cui l’arte può dare voce”. Gli artisti presenti in mostra la interpretano con disegni, bassorilievi e con fiori, con una nuvola di tessuti magici, con canzoni e con voci. Lavori, i loro, che si sottraggono ai vincoli della forma e del margine andando sempre oltre la soglia, dimostrando così – come ha dichiarato la direttrice Christov-Bakargiev – che l’arte interessa perché rende la vita un’esperienza più bella dell’arte stessa.

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