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Cercare il senso in un libro

Marco Archetti

La malandata libertà occidentale e le ridicole ondate oscurantiste con cui attentiamo alle nostre radici. Perché la lettura non è legittima difesa, ma legittimo attacco al vuoto che ci circonda

Non sono Woody Allen e non leggo per legittima difesa. Leggo per legittimo attacco. Chiede: “Come mai ti piace leggere?” (Ebbene sì, c’è in giro gente con l’hobby dell’aeromodellismo con stuzzicadenti, gente che fa volare i droni al parcheggino del paese o passa le domeniche al balipedio, che si chiede con aria fessa perché mai a qualcuno piaccia leggere…). Dico: “Perché mi fa la vita bella”. Dice: “Bella in che senso?”. Come, in che senso? Butta male. Che faccio, lascio? No, provo a spiegare.

 

Ultimamente mi è successo con romanzi come “I miei piccoli fallimenti” di Miriam Toews, “LOve” di Fulvio Abbate, “Le cose che non ti ho detto” di Azar Nafisi e “Hotel Savoy” di Joseph Roth, di sentirmi riempire di senso fino all’orlo, come una caraffa. Perché in fin dei conti è questo che cerchiamo nei libri, no? O per lo meno è quel che cerco io: il senso. Che non significa la spiegazione della vita, ma il dispiegamento di una complessità che ci riguarda intimamente. Succede quando un libro, un romanzo, un racconto, non sono una semplice suppellettile verbale, un esercizio di stile o una cravatta Lavallière in mussola che lo scrittore si annoda svolazzante al collo, ma quando sono lo specchio della nostra vita, dei nostri pensieri, del nostro modo di stare al mondo. Succede quando sentiamo che un libro ci accompagna nella comprensione, quando vede quel che vediamo noi ma con più diottrie, quando sente quel che sentiamo noi ma con più spettro acustico, quando ci cammina accanto ma ci porta a sentieri impensabili.

 

Leggo per legittimo attacco nel senso che per me leggere è comprendere meglio la vita, perché in un libro ho ancora bisogno di confidare e credere, convinto della sua capacità di “attaccare” la realtà, di fermarla, azzannarla e mostrarmi qualcosa che non so. Leggere non mi fa sentire solo. Leggere significa starmene fuori casa, avere le mie cose da fare, la coda in Posta e le incombenze quotidiane, e affrontarle col pensiero elettrico al libro che sto leggendo, al fatto che di lì a poche ore lo ritroverò e allora, alla luce dell’abat-jour, la vita tornerà iridescente, dispiegata, scultorea nella sua verità. Il giorno dopo riprenderò il tram e i passeggeri avranno il volto di ogni volto, il grande puzzle somatico dell’umanità che vive, si arrabatta, fa la Storia e finisce nelle pagine di un libro.

 

Leggere vuol dire imparare che il mondo diventa leggibile, diventa romanzo e si fa palinsesto di storie che trovano posto e significato, compresa la propria. In concreto? Grazie a “LOve” di Fulvio Abbate, certi oggetti della mia quotidianità si sono improvvisamente animati e i suoi racconti e la sua lingua li hanno accesi – sì, la lettura accende! Quando Miriam Toews ne “I miei piccoli dispiaceri” racconta di sua sorella che non vuole vivere, che resiste alla vita e si getta nella morte, sono stato finalmente costretto a chiedermi qualcosa di me e del mio rapporto con l’esistenza (e a rileggermi Schopenhauer). Quando Joseph Roth in “Hotel Savoy” scrive: “Ritorno ora da tre anni di prigionia di guerra, sono vissuto in un campo siberiano e ho vagabondato per villaggi russi e città facendo l’operaio, il giornaliero, la guardia notturna, il portabagagli e l’aiutante di un fornaio. Porto una blusa rossa regalatami da non so chi, calzoni corti ereditati da un camerata caduto e stivali, ancora portabili, che io stesso non ricordo più da dove mi siano venuti. E’ la prima volta che mi trovo dopo cinque anni alle porte d’Europa” mi dice tutto del passato, qualcosa del futuro, e mi consiglia perfino cosa fare in cabina elettorale.

 

Mi fa pensare a cos’è la libertà – la malandata libertà occidentale – e inevitabilmente anche al suo contrario, tipo che so, alle ridicole ondate oscurantiste tipo il Columbus day annullato o all’inserimento del Cristoforo nostro nella lista dei personaggi a rischio abbattimento nel comune di New York, e poi giù, a cascata, alla Storia letta senza storicizzazione, alla sconsideratezza con cui attentiamo alle nostre radici quasi ce ne vergognassimo, radici che per quanto mi riguarda sono anche e soprattutto nella letteratura, nella lingua italiana e nel grande romanzo europeo, addirittura in questo lusso fiammeggiante della frivolezza che possiamo permetterci, mentre a Teheran si legge “Lolita” di nascosto – supremo e commovente atto di libertà e di vita contro la morte – e nel libero occidente il romanzo è messo in pericolo da un’ola retriva in scialle etnico-paraculo di khomeinismo parafemminista.

 

Leggo per legittimo attacco al vuoto. Leggo per legittima voglia di vivere.

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