L'arte di cantare la barca che affonda e gli affondati di ieri e di sempre

Marco Archetti

Riscoprire un grande romanzo di Joseph Roth durante un dibattito sul romanzo

Germogliata in scia di una conferenza che si è tenuta alla scuola Holden il 9 dicembre 2019, in queste settimane ferve, su iltascabile.com, una discussione sul destino del “romanzo vero”, ossia del romanzo scritto dai cosiddetti professionisti della scrittura in un mondo infame come questo, tanto bulimicamente narrato da chiunque. Discussione qua e là degenerata nel discussionismo querimonioso sulle ragioni che sarebbero in predicato di sfrattare per sempre il sublime dalle nostre vite, ma che ha avuto l’indubbio pregio (con l’eccezione di un paio di bellissimi interventi) di desiderare la lettura di un romanzo vero, ossia scritto da un professionista della scrittura in un mondo infame come questo, tanto bulimicamente giudicato, ovunque e con toni oracolari, da chiunque si creda uno scrittore. Al resto ha pensato il Dio delle Lettere, che ha fatto sì che io mi imbattessi subito dopo nel Romanzo vero di un grande Scrittore, prodigio che mi ha illuminato con la condizione migliore al mondo: quella di Lettore. E che mi ha fatto capire come la questione di oggi e di sempre, sia il rapporto che ognuno di noi ha col proprio Tempo e con la propria Epoca. E – se si è scrittori – il rapporto che ognuno ha con la capacità di trarre fuori dal caos una grande storia emblematica. Insomma, il tempo per salvare il mondo lo perda pure qualcun altro: il compito di uno scrittore è cantare la barca che affonda. Anche a chi è già affondato.

 

Zipper e suo padre” (Adelphi, 172 pp., 14 euro) è il canto più sconvolgente di Joseph Roth, seppur sia difficile pescare un assolo dal repertorio e pretendergli il primato rispetto a sontuosità quali “La marcia di Radetzky”, “La cripta dei cappuccini” o “Il profeta muto”. Ma in questo grande romanzo composto da tre ritratti, l’autore tocca il vertice della sua arte narrativa, sempre riassunta, forse un po’ pigramente, nella formula: “Roth, il più grande cantore della finis Austriae”.

 

Il punto è che Joseph Roth – incarnato aedo di un’epoca – non è solamente lo sgargiante cantore di una barca che affonda: ma degli affondati mentre affondano. E non solo degli affondati di ieri, ma di oggi e di sempre. Questo perché ha saputo raccontare ciò che finisce in tutti noi, sempre, giorno dopo giorno, sgocciolando, mentre del fatidico sgocciolio udiamo a malapena il rintocco inesorabile (ma dov’è il guasto?), ostaggi come siamo di un destino già scritto che cancellerà noi e i nostri sforzi, soprattutto quelli che ci hanno reso ridicoli e malati di inconsapevolezza, affetti – eccoci, il selfie è perfetto – dalla più ignara delle sproporzioni.

 

Il vecchio Zipper è un burattino che non sa di esserlo perché non sa leggere la propria esistenza: si crede un intellettuale ma “conosce la storia attraverso gli aneddoti e la vita attraverso le lettere ai giornali”; si crede destinato a qualcosa e invece arranca e affonda. Il giovane Zipper, promessa mai mantenuta (promessa che solo il padre crede gli sia stata fatta), si rivelerà un incompiuto alla stessa maniera, anzi, uno che non potrà mai compiersi, un angolista, uno che al caffè non ha nulla da dire, un suonatore di due note, un clown, un eterno innamorato infelice, e Roth ce lo offre nudo, nelle ultime pagine del romanzo, in cruda lettura parallela col padre, perché l’ironia è che i due si somigliano come fratelli, sono i ritratti patetici su due facce di una medaglia di alcun valore. Tra di loro, diamante falso, Erna Wilder: attricetta hollywoodiana, eterna aspirante, arrampicatrice senza forza nella gambe. “Noi siamo quelli ritornati dalla guerra per sbaglio”, dice Roth parlando del giovane Zipper. “E sappiamo che verrà ancora una generazione come quella dei nostri padri. E che ci sarà ancora una volta la guerra”. E dopo averlo detto, scocca la sua maledizione verso la generazione dei padri, quella che ha mandato i figli al massacro della Prima guerra mondiale, quella dei patrioti da caffè che ha scritto il destino di chi, adesso, non ha un posto, ed è messo sotto sfratto dalla storia, mentre già preme una nuova generazione che nulla sa eppur, vanamente, ambisce.

Perché la nostra tragedia non è solo l’irrilevanza. La nostra tragedia è, nell’irrilevanza, non riconoscerci mai.

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