L'écurie du chalet, illustrazione di Gustave Roux (foto via Wikimedia Commons)

Nostalgia, la nostra grave malattia sociale

Antonio Gurrado

Come siamo diventati il popolo incattivito e passatista descritto dal Censis. Un libro aiuta a capire

I soldati svizzeri di stanza in giro per l’Europa del Seicento avevano una canzone – il “Ranz des vaches” – che ricordava loro la patria d’origine con tanta dolcezza da dover essere proibita pena la morte, poiché cadevano in un’inesauribile malinconia che li fiaccava. Da male elvetico esso si propagò presso i contingenti di tutte le nazioni, tanto che nel 1733 un generale russo fece spargere la voce che i soldati ammalati di nostalgia sarebbero stati sepolti vivi, e nel 1790 un medico adottò per i soldati francesi la cura drastica di un ferro rovente applicato all’addome. In entrambi i casi tutti guarirono miracolosamente.

 

Se i nostalgici guarirono, allora erano malati. E’ appena uscito “Nostalgia. Storia di un sentimento” (Cortina), antologia a cura di Antonio Prete utile a ricostruire come, nel giro di pochi secoli, questo male così connotato geograficamente e professionalmente si è trasformato da malattia a sentimento. E’ una lettura utile a interpretare financo l’ultimo rapporto Censis che individua quale sentimento più diffuso fra gli italiani una nostalgia per la placida Italia del posto fisso, che tracima però in un rancore ad alzo zero: contro i politici e gli immigrati o l’intera vita quotidiana. Siamo in preda a un sentimento incontrollato o agli ultimi spasmi di una malattia?

 

Etimologicamente parlando, siamo convalescenti. Il termine nostalgia appare per la prima volta, e in caratteri greci, nel titolo della “Dissertatio medica de nostalgia” di Johannes Hofer, tesi discussa a Basilea nel 1688. Hofer la definisce “tristezza ingenerata dall’ardente brama di tornare in patria” e “sintomo di un’immaginazione turbata” causato tuttavia da danni concreti, da spiriti vitali che s’incanalano verso la parte interna del cervello in modo tale da ossessionarlo. Materiali sono le cause (cambiamento d’aria, cibo diverso, costumi inconsueti), materiali sono le manifestazioni (febbre, scontrosità, pianto notturno), materialissima ed elementare la cura: basta riportare il paziente da dove è venuto.

 

La prima evoluzione avviene nel Settecento. Sebbene il celebre Tissot nel 1761 si mantenga saldo sull’interpretazione materialista – consigliando a chi non può partire “l’uso frequente di vegetabili freschi, e la totale astinenza dalle parti più dure degli animali, e dai rancidi olj” (ogni assonanza vegana è puramente casuale) – l’Illuminismo sposta per primo le cause dal fisico al sentimento. Albrecht von Haller, che stende l’articolo “Nostalgia” per il supplemento all’Encyclopédie (1777), spiega che la causa non è il peggioramento dell’aria circostante: sa di groenlandesi depressi perché forzatamente condotti in Danimarca, dove l’aria è più dolce; e riferisce di uno studente guarito non dal ritorno a casa ma dalla semplice promessa del viaggio. Di lì i medici propendono per l’interpretazione psicologica della nostalgia: un Auenbrugger parla di soldati spagnoli che ne restano immuni dopo una riforma dell’esercito asburgico che riduce i periodi di stanza all’estero, uno Zimmermann riscontra l’incidenza della malattia nei marinai britannici che non possono permettersi lunghi periodi sulla terraferma.

 

Kant è poi il primo a capire che la guarigione del nostalgico non coincide col ritorno ma con la delusione. Nell’“Antropologia dal punto di vista pragmatico” (1798) spiega che il luogo d’origine può anche essere rimasto immutato e coincidere coi ricordi, ma tornandovi il nostalgico si accorgerà che è cambiato il suo io: il luogo che ha finalmente a portata di mano resta comunque irraggiungibile ed è questa disillusione a farlo rinsavire.

 

Da questo momento la medicina guarderà alla nostalgia come a una malattia dell’animo. Philippe Pinel, intervenendo nell’Encyclopédie méthodique del 1821, inserisce fra le sue cause anche l’incertezza sulla sorte, sganciando così la nostalgia dalla geografia e congiungendola al tempo, al timore del futuro che spinge a rifugiarsi nel passato. Propone inoltre come cura il “distrarre i malati con il gioco, i divertimenti, gli spettacoli”; consiglio che colpisce particolarmente oggi, quando invece ci caratterizza l’impossibilità di curarci dalla nostalgia non solo perché abbiamo bisogno di distrarci dalle nostre stesse distrazioni, come nota chiunque sbirci Instagram mentre guarda un film o una partita, ma soprattutto perché i nostri stessi divertimenti servono a farci piombare nel passato e quindi a incrementare la nostalgia da cui dovrebbero distoglierci. Degli infiniti esempi di trionfo del vintage di cui gronda la nostra produzione culturale, limitiamoci alle serie tv: “Stranger things” sguazza nell’immaginario extraterrestre anni 80; “Dark” ricongiunge attraverso un complicato labirinto i giorni nostri a trenta e sessant’anni addietro; la più bella puntata di “Black Mirror” trasforma il paradiso in un parco a tema cronologico, in cui ciascuno può scegliere di trascorrere un sabato sera nel proprio anno preferito.

 

E’ Starobinski a spiegarci il perché. In un saggio uscito nel 1966 su Diogène fa notare che il termine “nostalgia” è stato recepito nel dizionario dell’Académie française solo nel 1835, a un secolo e mezzo di distanza dal conio e solo dopo avere sconfitto sinonimi meno fortunati che designavano i nostalgici come clinicamente affetti da nostomania, nostrassia, philopatridomania, pothopatridalgia. Ciò ha dato al termine uno statuto linguistico, facendo accadere ciò che André Gide diceva degli innamorati, che mai si sarebbero innamorati se nessun poeta avesse scritto parole d’amore. L’ingresso di “nostalgia” nel dizionario l’ha reso “un termine letterario (quindi vago)”, continua Starobinski, e senza di esso la mutevole categoria dei nostalgici non avrebbe avuto un’etichetta per nobilitare la propria sensazione individuale confusa. Mentre infatti come malattia la nostalgia “designava uno spazio e un paesaggio concreti, le nozioni contemporanee designano una persistenza soggettiva del passato vissuto”. 

 

Ecco dunque la radice del malessere espresso oggi dal Censis. Non va sottovalutato che l’evoluzione della nostalgia si è accompagnata al tramonto del valore e del concetto stesso di patria, così che al soldato svizzero che sospirava i monti natii si è sostituita la figura duttile di un solipsista che, non avendo una patria da rimpiangere, ne proietta una immaginaria fatta di echi cavernosi del proprio passato e la contrappone ostilmente al contesto in cui vive: per questo lamenta con rancore l’assenza di lavoro, di sicurezza, di prospettiva rispetto all’età dell’oro che custodisce gelosamente in sé e che crede realmente esistita poiché vede attorno a sé infiniti altri solipsisti infuriati per la medesima scarsa aderenza della realtà all’immaginazione passatista.

 

Forse, come proponeva Kant, l’unica guarigione possibile è per mezzo della delusione. Occorre in tal caso leggere Vladimir Jankélévitch il quale, ne “L’irreversible et la nostalgie” (1974) diceva a chiare lettere che “l’oggetto della nostalgia non è questo o quel passato bensì il fatto del passato, in altre parole la passatità. La quoddità del passato, il fatto indeterminato del passato in generale, è l’oggetto impalpabile della nostra melanconia”. Potrebbe bastare. Il ferro rovente è per i casi più gravi; per i gravissimi, l’ascolto reiterato del “Ranz des vaches”.