Desideri e profezie per l'anno che è appena cominciato

Redazione

Califfato, Corea del nord, crescita economica, elezioni, Mondiali di Russia e grandi romanzi. Sei spunti per capire cosa accadrà nel 2018

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Capiremo che cosa vuole il giovane Kim

Per anni abbiamo considerato la Corea del Nord uno dei regimi più imprevedibili del mondo, guidato da una dinastia folle e sanguinaria. Fino alla fine del 2011 almeno avevamo un interlocutore: Kim Jong-il era l’uomo che aveva disatteso ogni accordo internazionale, ma aveva pur sempre stretto la mano al presidente americano Bill Clinton, aveva un rapporto privilegiato con Pechino e sapeva usare con strategia le minacce, le promesse e le richieste di aiuto. Dal 2012 in poi, però, tutto è cambiato. Quando è salito al potere Kim Jong-un di lui avevamo pochissime notizie, sin da quando è al potere non è mai uscito dal paese e non ha mai incontrato ufficialmente un leader straniero. Questo alone di mistero ha moltiplicato le fake news sul conto di Pyongyang, rendendo difficile distinguere il vero dal falso. A poco a poco ogni previsione di collasso della Corea del Nord, privata di un leader capace, è stata smentita. Oggi Kim Jong-un è più forte che mai, in sei anni ha consolidato il suo potere e isolato ancora di più la nazione per “il bene” del regime. Soltanto nel 2017 il giovane Kim ha compiuto più test missilistici di quanti ne abbia fatti il padre durante i diciassette anni di governo. E poi due test nucleari a distanza di soli otto mesi, uno a gennaio e uno lo scorso settembre – quest’ultimo il più potente mai registrato. Cosa vuole Kim Jong-un?, è la domanda più ricorrente. La risposta potrebbe arrivare nel corso di quest’anno: per riaprire i colloqui e iniziare un nuovo round di negoziati, la condizione posta dal giovane Kim è il riconoscimento della Corea del Nord come potenza nucleare. Il lato più imprevedibile, piuttosto, resta quello di Donald Trump, che ha smantellato la strategia della “pazienza strategica” del suo predecessore e sembra deciso a risolvere una volta per tutte la questione nordcoreana. Ma un first strike, anche se spesso implicitamente minacciato, non può essere la soluzione. L’unica alternativa realistica, condivisa da molti analisti, è quella di tornare al tavolo dei negoziati, e lasciare alla Cina il lavoro sporco nel caso in cui fallissero.

 

Giulia Pompili

Lo Stato islamico sulla via del declino

Il 2018 dello Stato islamico comincia come dieci anni fa, nel 2008, quando il capo di allora, Abu Omar al Baghdadi, ammise davanti ai suoi la sconfitta dal punto di vista militare: “Non possiamo più tenere un territorio nemmeno per un quarto d’ora”. Oggi è lo stesso. Passati i tempi in cui lo Stato islamico riusciva a resistere nella città libica di Sirte per otto mesi (era l’anno 2015) e nella città irachena di Mosul per nove mesi (nel 2017) contro forze superiori e a dispetto di bombardamenti massicci, adesso quel che resta dell’esercito di fanatici deve fare i conti con gli strascichi delle sconfitte pesantissime sul campo ed è costretto a tornare alla sua incarnazione precedente: un gruppo clandestino specializzato in assassinii, attentati, sabotaggi e intimidazioni. Questa nuova/vecchia linea strategica ha un nome in arabo, al nikaya, come dieci anni fa. La grande differenza con il 2008 è che allora lo Stato islamico era un fenomeno prettamente iracheno, con poche centinaia di adepti superstiti e al di fuori del paese non ne parlava quasi nessuno.

 

Oggi la crisi di questo Stato islamico parte da un livello molto superiore: Al Baghdadi (non il già citato Abu Omar, ma il successore che conosciamo tutti Abu Bakr) questa volta assiste al crollo della sua utopia dall’alto di un seguito di migliaia di volontari e di simpatizzanti e di un’insperata espansione internazionale, dalla Somalia alle Filippine fino all’Afghanistan. E’ un perdente, ma ancora molte persone in giro per il mondo sono disposte a immolarsi per lui e a fare attentati. Nel 2018 lo Stato islamico può sperare di tornare a contare come nel passato soltanto se si verificheranno eventi catastrofici e poco probabili, per esempio una guerra totale fra curdi e governo centrale in Iraq oppure una rivoluzione in Algeria. Se invece non ci saranno cataclismi politici, il gruppo terrorista continuerà per la strada del declino sotto la guida di un califfo senza più califfato e ferito nel carisma, ma ancora costellata di attentati.

 

Daniele Raineri

Gli italiani con i capi che si meritano

L’Italia civile, o quel che ne rimane, sa che il rischio non è una riedizione meno mascelluta del Ventennio, che passa da un’estetica caricaturale di ragazzi veneti a pancia piena, e nemmeno dall’antitesi rossa, per gli scalmanati no-tutto dei centri sociali; sa che quelle sono manifestazioni epidermiche e purulente di un paese che ha rifiutato la fatica della democrazia. Le soluzioni facili e impulsive sono una scorciatoia che porta al totalitarismo, o anche solo ad assaggi qua e là illiberali, e percorrono ognuno di noi, ogni partito, siccome, innanzitutto, si è dimenticato che la libertà è un bene così prezioso da presupporre più doveri che diritti. Allora, comprimere le facoltà e le guarentigie dei parlamentari non è una punizione ai parlamentari inetti, è una punizione a tutto il paese. Dare l’assalto legislativo e giudiziario ai reati anziché ai rei, a seconda di che passa il menu del giorno nell’elenco emergenze, che siano la corruzione o le violenze private o le rapine a mano armata dai tabaccai, è la ricetta dello stato di emergenza proposto dai nazisti e contrapposto allo stato di diritto: ma nessuno ci pensa. Si smantella giorno dopo giorno, pietra dopo pietra, il castello delle società democratiche occidentali in nome di una ribellione ferale. L’Italia civile ha il dovere di dire, principalmente a se stessa, che nessun popolo sano può produrre una classe dirigente insana, e che il racconto ormai pluridecennale del popolo italiano probo e laborioso oppresso da una disonesta e indolente classe dirigente regge per autosuggestione e autoassoluzione, ma un giorno rideranno di noi: gli sarà chiaro che un popolo refrattario alle regole, anarchico, dedito alla piccola truffa quotidiana si è dato i capi che poteva darsi, e ha creato le condizioni della sua stessa rovina. Il fine ultimo delle fake news, che sarà uno dei temi centrali dell’anno, è essenzialmente di darsi una soffice risposta alla domanda: di chi è la colpa della mia colpa?

 

Mattia Feltri

Messi e Neymar al gran gala di Putin

Non ci sarà l’Italia, dopo 60 anni. Consumata la tragedia, elaborata la perdita, metabolizzate le conseguenze enormi, il Mondiale di calcio del 2018 in Russia ci sarà comunque. E l’assenza dell’Italia è un problema dell’Italia e basta. Il resto del mondo che doveva esserci – con la sola eccezione dell’Olanda, oltre agli azzurri – ci sarà. Sarà un Mondiale di tante cose: la più scontata è l’ennesimo e ultimo tentativo di Lionel Messi di potersi presentare a un paragone con Maradona - ammesso che abbia senso farne – senza partire con un handicap impossibile da colmare. Ma l’eventuale vittoria dell’Argentina avrebbe anche un altro significato: interromperebbe la striscia di dominio europeo sulla Coppa che dura dal 2006. Da allora un continente in difficoltà politica nel mondo del calcio, ridimensionato nel potere a vantaggio di confederazioni “nuove” e con più voti nei Congressi Fifa è però riuscito a vincere sul campo: Italia, Spagna, Germania. Non era mai successo nella storia dei mondiali di avere un filotto così. Anche il Brasile di Neymar potrebbe interromperlo. Come l’Argentina e come Germania, Francia, Spagna è al solito una delle favorite. E anche qui stringendo al dettaglio, c’è un altro scenario: solo un Mondiale può dare a O’Ney la spinta a fermare il duopolio Messi-Ronaldo che governa a livello individuale il calcio globale. Neymar è l’erede anagrafico e tecnico, ma a furia di aspettare rischia di essere l’eterno numero tre. C’è poi un altro aspetto fondamentale: sarà un Mondiale politico. In senso novecentesco. Quelli di Sudafrica e Brasile lo sono stati in senso global-terzomondista-buonista. Erano l’occasione di riscatto e di rinascita. Qui invece c’è il mondo che guarda con sospetto al paese organizzatore e pensa che abbia voluto il Mondiale per un’operazione di make-up. Sarà interessante vedere come nella realtà Vladimir Putin vorrà giocarsi questa carta. Anzi: quando comincerà a usarla.

 

Giuseppe De Bellis

Riforme per alzare il potenziale di crescita

Non esistono ricette magiche per ridurre il debito pubblico. Servono grande pazienza, prudenza sui conti e una solida crescita. Interventi straordinari, come il “Progetto Capricorn” che gira nel Pd – l’ennesima privatizzazione fasulla, cioè attuata tramite il trasferimento di una quota delle azioni di aziende controllate dallo Stato alla Cassa depositi e prestiti, della quale lo Stato stesso possiede la maggioranza assoluta – sono solo trucchi contabili. D’altronde la storia insegna che da un debito pubblico elevato si esce solo in tre modi: con una “botta di inflazione”, come fece Luigi Einaudi nell’estate del 1946; con un consolidamento forzoso, come fece il governo Mussolini nell’autunno del 1926; o con una combinazione di solida crescita e inflazione moderata, come accadde in Gran Bretagna e Stati Uniti dopo la fine della guerra. Quindi lasciamo perdere le “idee intelligenti”. Come se gli investitori internazionali che detengono il 40 per cento circa del nostro debito non valutassero il rischio Italia consolidando il bilancio dello Stato con quello della Cassa. La buona notizia è che abbiamo davanti anni relativamente tranquilli: il costo medio del nostro debito pubblico, 3,5 per cento, è straordinariamente basso se si tiene conto che lo Stato sta ancora pagando cedole sui titoli emessi durante la crisi del 2011. Quindi la crescita. C’è stato un periodo, dal 2011 al 2015, quando la nostra bassa crescita dipendeva soprattutto dalla scarsità di domanda, compressa, oltre che dalla crisi, da un aumento straordinario della pressione fiscale nel biennio 2011-12. Nel 2015 gli “80 euro” di Matteo Renzi furono una buona idea e aiutarono. Ma oggi cresciamo mezzo punto più del nostro potenziale. La priorità non è più la domanda ma riforme strutturali che alzino il nostro potenziale dall’1 al 3 per cento. Potenziale vuol dire produttività, e produttività in Italia vuol dire comprimere lo spazio occupato da imprese che sono poco produttive perché o controllate dalla politica, come le municipalizzate, o protette dalla concorrenza come i servizi professionali alle imprese, o troppo piccole e non inserite in una filiera. Basterebbe questo per scrivere il programma economico del prossimo governo.

 

Francesco Giavazzi

Vorrei un grande romanzo sul 2018

Un libro deve essere un’ascia che sfonda il mare ghiacciato dentro di noi. Lo ha scritto Kafka e io non credo che qualcosa sia cambiato da allora, da sempre, dai primi poeti della storia dell’umanità, fino a questo 2018 che sta per cominciare. Un libro deve turbarci, darci un colpo alla testa come dice Nathan Zuckerman: “Se il libro che stiamo leggendo non ci scuote con una botta in testa, cosa lo leggiamo a fare?”. Adesso è più difficile, siamo più ghiacciati che mai, crediamo di sapere tutto, di avere visto tutto, ma il compito di uno scrittore è sempre lo stesso: trovare nuove parole, nuovi modi di dire la verità delle cose. Io non amo i romanzi di fantascienza, non mi entusiasmo per i thriller, mi affatico con le trame complicate, ho bisogno di realtà, e a uno scrittore nel 2018 chiedo in ginocchio di non ambientare un romanzo nel 1700: mi entusiasmo se riesce a portarmi in un altro mondo, sì, ma senza che io me ne sia davvero accorta. Senza che io abbia fatto lo sforzo di adattarmici. Questo nuovo mondo deve essere così vicino da poterlo toccare, così umano da poterlo comprendere. Non voglio immedesimarmi a ogni costo, anche se penso che un lettore legga sempre se stesso anche quando legge di due amiche geniali in un rione napoletano negli anni Cinquanta, e lui è nato nel 1988 a Cuneo ed è un maschio. Leggere. Chiedo agli scrittori in questo nuovo anno di urtarmi il cervello, farmi nascere nuovi pensieri, chiedo di non assecondarmi mai e di farmi anche arrabbiare. Chiedo di mettermi in pericolo. Chiedo di non cercare di rendermi una persona migliore, ma una persona più viva. E sono d’accordo con Amos Oz, quando dice che “i libri, loro, non ti abbandonano mai. Tu sicuramente li abbandoni di tanto in tanto, magari li tradisci anche, loro invece non ti voltano mai le spalle: nel più completo silenzio e con immensa umiltà, loro ti aspettano sullo scaffale”. Loro sono così umili che noi possiamo permetterci di essere presuntuosi e arroganti, e chiedere nel 2018 dei grandi romanzi sul 2018.

 

Annalena Benini

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