Foto LaPresse

Video dimenticabili e nessun fil rouge, a Venezia meglio gli eventi collaterali

Manuel Orazi

La Macel deplora indifferenza e individualismo, invoca l’umanesimo come “atto di resistenza”, di liberazione e di generosità, ma non specifica chi è il nemico. Abbiamo fatto un giro per la 57esima Biennale Arte

Venezia. “Adoro Geta Bratescu!” esclama un simpaticissimo image maker all’ingresso del padiglione rumeno ai giardini, e prendiamola subito di petto la questione femminile. Qui alla Biennale si passa dal recupero di artiste dimenticate in vita come la Bratescu o Maria Lai, alla curatrice del padiglione italiano Cecilia Alemani, fin su alla direttrice francese Christine Macel. La curatrice del Centre Pompidou ha aperto la 57esima Biennale Arte giusto il giorno dopo l’incoronazione di Emmanuel Macron, e chissà se quella vecchia volpe di Baratta non aveva programmato tutto fin dall’inizio. Francesi über alles, anche con un padiglione dove hanno investito parecchio trasformandolo in un vero studio di registrazione dove l’arte presentata sarà soprattutto la musica nonostante l’allestimento da padiglione architettonico. Sia come sia, il titolo e il tema della mostra sono e restano ermetici: “arte viva arte”.

 

La Macel deplora indifferenza e individualismo, invoca l’umanesimo come “atto di resistenza”, di liberazione e di generosità, ma non specifica chi è il nemico: meglio così. Tuttavia, pur apprezzando i suoi “capelli lavati” come ha scritto la Aspesi l’impostazione della mostra e dei nove “trans-padiglioni” resta piuttosto evanescente. Leggiamo che si vuole mettere “l’arte e gli artisti al centro”, ma è affermazione pleonastica a meno che non si voglia implicitamente criticare Biennali precedenti, tipo l’ultima dove all’ingresso bisognava rileggere il Capitale di Marx, ma trattasi di riferimenti che non siamo in grado di cogliere.

 

Gli smaliziati come Fulvio Abbate, che torna a Venezia dopo più di vent’anni a girare filmini per Teledurruti, paragonano fra il divertito e lo spazientito ogni settore della mostra o padiglione a un negozio diverso: arredo-bagno (il padiglione greco), merceria (i gomitoloni colorati di Sheila Hicks), ferramenta (installazioni di telai metallici paragonati a zanzariere), vetrinismo (le scarpe da ginnastica dove crescono piantine di Michel Blazy), Ikea (padiglione spagnolo) e così via.

 

In ogni caso è difficile trovare un fil rouge o una tendenza dominante anche perché c’è un po’ di tutto: installazioni, video, performance e perfino quadri a tempera – notevoli quelli del siriano Marwan, bizzarri quelli della cinese Lai che di nome di battesimo fa Firenze.

 

Gli ammessi alla vernice non sono da meno della varietà delle opere: non solo hipster e galleristi insomma, non solo ragazze con l’impermeabile di nome Alberica o Geneviève, ma anche tutto un campionario di curiosi cosmopoliti fra cui non possiamo non notare i moltissimi giovani romani “sempre in cerca di lavoro e di inciuci”, denuncia l’anonimo image maker milanese, oltre alla solita pattuglia di esibizionisti: l’uomo vestito di giallo con un cartello appeso al collo “Capitalismi s not art”, il ragazzo barbuto con la gonna rossa, la coppia di calvi vestiti da bambole, il cinese col cappello futuristico (e c’inseriamo anche Hans Ulrich Obrist col suo completo blu elettrico). La vernice è insomma come una prima a teatro, dove si va per vedere uno spettacolo, ma soprattutto per farsi vedere. Pazienza allora se dobbiamo rinunciare ad alcuni padiglioni per la troppo lunga fila d’attesa come per gli Usa o la Finlandia (dove pare che uno con due guanti a forma di pupazzi si percuote i genitali).

 

Arriviamo allora al padiglione italiano curato dalla milanese Alemani che vive a New York e cura le installazioni nel celebrato parco della High Line. Il padiglione è piaciuto a molti, ha risolto il problema ormai atavico della sua smisurata grandezza inserendo una sola opera in ognuna delle sue tre enormi stanze opera di altrettanti autori: la romana Adelita Husni-Bey, con un video dimenticabile come tutti i video; il veneziano Giorgio Andreotta Calò che ha costruito una incombente vasca d’acqua che pesa sopra la testa dei visitatori e il modenese Roberto Cuoghi che ha riportato in auge nientemeno che il crocifisso, sezionandolo, decostruendolo e moltiplicandolo con decine di variazioni sul tema in una specie di laboratorio-obitorio che ha stupito tutti nel bene e nel male, anche se a noi sono sembrate tutte belle copie del Cristo di Pericle Fazzini in Vaticano.

 

Grande delusione per il Leone d’oro che è andato invece alla Germania, dove si cammina su vetri sospesi a creare una grande piattaforma-intercapedine dove un collettivo di performer punk seminudi si rotolano fra dobermann e saponette (geniale, ci dicono). Consigliamo di prendersi almeno tre giorni per visitare anche solo i migliori eventi collaterali come il delizioso meeting point aperto da Mara Sartore di My Art Guides nel circolo della Marina militare o le nuove gallerie aperte da altre due veneziane di ritorno, Alberta Pane da Parigi e Beatrice Burati Anderson da Roma con Art Space & Gallery. Insomma le donne fuori del circuito della Biennale, il potere se lo prendono da sole senza rinunciare al parrucchiere, con buona pace della Sig.ra Aspesi.

Di più su questi argomenti: