Antonio Gramsci

Ben vengano le cerimonie per Gramsci, purché si sappia di cosa si parla

Giuseppe Bedeschi

Troppo incenso per colui che esaltò la violenza rivoluzionaria. Al di là della sua grandezza morale (che è fuori discussione), di Gramsci bisogna conoscere anche il pensiero, che non può essere accettato in blocco come un Vangelo

Ottant’anni fa moriva Antonio Gramsci, la cui salute era stata minata da lunghi anni di permanenza nel carcere fascista. E si svolgono cerimonie per ricordare quest’uomo politico e pensatore, la cui azione e la cui opera hanno avuto tanta importanza nel Novecento italiano. Alla Camera dei deputati è stata organizzata una grande mostra, alla quale sono intervenuti il capo dello stato e i presidenti dei due rami del Parlamento, Grasso e Boldrini. Altre cerimonie seguiranno, mentre si susseguono orazioni e dichiarazioni.

 

Tutto bene, tutto giusto, tutto scontato. Purché, però, si sappia di che cosa si parla. Intendiamo dire: al di là della sua grandezza morale (che è fuori discussione), di Gramsci bisogna conoscere anche il pensiero, che non può essere accettato in blocco come un Vangelo. Quel pensiero presenta infatti parecchie “criticità”, sulle quali sarebbe bene riflettere, anche se esse non possono essere argomento di commemorazioni. Qui ne segnaliamo alcune.

 

Nel biennio 1919-20 (il “Biennio rosso”) Gramsci esaltò la violenza rivoluzionaria (che tanta importanza avrà nell’ingrossarsi del movimento fascista). Di tale esaltazione Gramsci diede un saggio impressionante quando egli analizzò, sull’Ordine Nuovo, il ruolo della piccola e media borghesia italiana: “La borghesia dei funzionari pubblici padre-figlio, dei piccoli proprietari industriali e agricoli, commercianti in città, usurai nelle campagne”. Questa piccola e media borghesia veniva definita da Gramsci “la peggiore, la più vile, la più inutile, la più parassitaria”. Essa veniva paragonata a “una invasione di locuste putride e voraci”. La guerra, diceva lo scrittore sardo, aveva valorizzato questa piccola e media borghesia. Nella guerra e per la guerra l’apparecchio capitalistico di governo economico e di governo politico si era militarizzato, e tutte le attività di interesse generale erano state nazionalizzate, burocratizzate, militarizzate. Per attuare questa “mostruosa costruzione” lo stato italiano aveva mobilitato in massa la piccola e media borghesia, la quale, per Gramsci, non doveva essere combattuta solo politicamente, ma, secondo una ispirazione soreliano-leninista, doveva essere annientata fisicamente. Su questo punto Gramsci era fin troppo esplicito, e le sue parole non si prestavano a fraintendimenti. Dopo aver detto, infatti, che la piccola e media borghesia era “la barriere di umanità corrotta, dissoluta, putrescente, con cui il capitalismo difende il suo potere economico e politico, umanità servile, abietta, umanità di sicari e di lacché, divenuta oggi la ‘serva padrona’ che vuole prelevare sulla produzione taglie superiori non solo alla massa di salario percepita dalla classe lavoratrice, ma alle stesse taglie prelevate dai capitalisti” – dopo aver detto ciò Gramsci non esitava ad affermare, a proposito di questa classe, che bisognava “espellerla dal campo sociale, come si espelle una volata di locuste da un campo semidistrutto, col ferro e col fuoco”. Ciò avrebbe permesso, da un lato, di “alleggerire l’apparato nazionale di produzione e di scambio da una plumbea bardatura che lo soffoca e gli impedisce di funzionare”, e dall’altro lato di “purificare l’ambiente sociale e trovarsi contro l’avversario specifico: la classe dei capitalisti proprietari dei mezzi di produzione e di scambio”. Era, dunque, un programma di vero e proprio annientamento della piccola e media borghesia emersa con la guerra quello che la rivoluzione bolscevica italiana doveva proporsi, secondo Gramsci, “col ferro e col fuoco”.

 

Non c’era da meravigliarsi, alla luce di queste affermazioni di Gramsci, se quella piccola e media borghesia sorta con la guerra o rafforzata da essa, di cui lo scrittore sardo predicava l’annientamento, avrebbe fornito i quadri al movimento fascista, ben deciso a porre fine alla minaccia bolscevica, vera o presunta che fosse (ma il grande movimento di occupazione delle fabbriche, nel settembre 1920, diede a vasti strati della piccola e media borghesia la certezza che quella minaccia fosse ben concreta e reale).

Ma, ci viene subito ricordato, Gramsci è soprattutto l’autore dei Quaderni dal carcere. I quali sono certo una grande opera di pensiero (condotta, eroicamente, in condizioni difficilissime). E tuttavia non c’è nessun dubbio che nei Quaderni emerge un teorico totalitario. Gramsci vi dava infatti questa caratterizzazione, divenuta famosa, del ruolo e dei compiti del “moderno Principe” (come egli definiva il Partito comunista, con un significativo richiamo alla concezione demiurgica di Machiavelli): “Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume”.

 

Con queste parole Gramsci esprimeva – nonostante le sue aspirazioni a un laicismo moderno – una concezione integralmente totalitaria della società, poiché in essa “il moderno Principe”, ovvero il Partito comunista, era posto al centro della vita dell’uomo in tutti i suoi aspetti: il nuovo Leviatano veniva a identificarsi con tutta la vita sociale e culturale, copriva tutti gli spazi della società civile, e non lasciava margini di autonomia o di indipendenza nemmeno nel foro interno, nemmeno nella vita intellettuale e morale (dove veniva a costituire una nuova divinità o un imperativo categorico).

 

C’è un punto, assai delicato, nei Quaderni, dove Gramsci affronta il problema della libertà di ricerca e di pensiero. Egli sapeva bene, da buon storicista, che anche la Weltanschauung proletaria (comunista) non poteva essere qualcosa di rigido e di immobile, di dato una volta per tutte, bensì doveva svilupparsi e arricchirsi continuamente, se voleva essere all’altezza dei continui mutamenti della società. Ma essa poteva svilupparsi e arricchirsi solo attraverso una riflessione spregiudicata, non ipotecata da risultati già acquisiti. C’è un passo assai significativo, a questo proposito, nei Quaderni, che suona così: “Pare necessario che il lavorio di ricerca di nuove verità e di migliori, più coerenti e chiare formulazioni delle verità stesse, sia lasciato all’iniziativa libera dei singoli scienziati, anche se essi continuamente ripongono in discussione gli stessi princìpi che paiono i più essenziali”. Ma, detto ciò, Gramsci aggiunge subito: “Non sarà del resto difficile mettere in chiaro quando tali iniziative di discussione abbiano motivi interessati e non di carattere scientifico. Non è del resto impossibile pensare che le iniziative individuali siano disciplinate e ordinate, in modo che esse passino attraverso il crivello di accademie o di istituti culturali di vario genere e solo dopo essere state selezionate diventino pubbliche, ecc.”. E’ un’affermazione, questa, che chiarisce efficacemente il modo in cui Gramsci concepiva la libertà di ricerca e di critica, senza la quale non ci può essere progresso culturale. Non è difficile immaginare, infatti, chi dovesse essere preposto a decidere, secondo Gramsci, quando le iniziative di di discussione avessero “motivi interessati e non di carattere scientifico”: questa decisione spettava, ovviamente, al “moderno Principe”, al Partito comunista. Il quale avrebbe delegato alle accademie o agli istituti culturali di vario genere (posti sotto il suo diretto controllo) il compito di “disciplinare” e di “ordinare”, di “selezionare” e di rendere pubblici o meno i risultati delle ricerche e delle discussioni: cioè avrebbe delegato a essi un ufficio di censura (sì, proprio così: di censura). Sembra inutile sottolineare che qui siamo in pieno bolscevismo, e che tutto il marxismo “critico” di Gramsci è piegato alle esigenze della ragion di stato, di uno stato totalitario.

 

Abbiamo proposto questi brevi appunti solo per dire che Gramsci non può essere trattato come un santino, e che al sant’Antonio Gramsci bisogna sostituire il Gramsci in carne e ossa, protagonista di una fase della nostra storia, in cui egli non militò nel campo liberal-socialista, bensì in quello marxista-leninista.

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