Beppe Grillo (foto LaPresse)

Fatti, commenti, appuntamenti del giorno presi dal taccuino di Mario Sechi

Dati e numeri dei ballottaggi per convincere il Pd a rileggersi Gramsci

Mario Sechi
Due grafici in anteprima spiegano la strategia di Grillo e l'evoluzione dell'elettorato italiano. Per Renzi è urgente cominciare a conoscere il suo avversario pentastellato. Fatti, commenti, appuntamenti del giorno presi dal taccuino di Mario Sechi
    San Giovanni da Matera

     

    Titoli. Punto nave: il Pd ha perso, il Movimento 5 stelle ha preso il posto del centrodestra, il voto nei Comuni è una sconfitta salutare per Renzi (se ne trarrà le conseguenze). Concentrarsi sulle ragioni della caduta del partito del presidente del Consiglio è utile (Repubblica: “Trionfo a 5 Stelle a Roma e a Torino. Milano a Sala, ma per il Pd è crisi”), ma forse tra i democratici è anche ora di rileggere (ammesso che l’abbiano mai fatto) Gramsci e cominciare a conoscere l’avversario, il Movimento 5 stelle. Il grillismo è già un fatto di governo locale (buono, cattivo, mediocre) e punta dritto a Palazzo Chigi senza sentire la necessità di presentare liste ovunque e puntando sul bersaglio grosso in difficoltà. Roma era la preda perfetta. E’ caduta senza neppure combattere, anche perché gli altri miliziani e generali erano zombi in lite tra loro. E la notizia della Capitale non è l’affermazione di Virginia Raggi, ma la liquefazione del Pd nel ballottaggio, l’inconsistenza della sua campagna elettorale, pervasa dall’ossessione social, senza più territorio, ma incapace di stare sui social network perché in realtà tutta orientata a riempire lo spazio delle televisioni e dei giornali. Inutilmente. Internet è di gran lunga la fonte numero uno di informazione per gli elettori. Sta uscendo in queste ore una ricerca dell’economista e sociologo Antonio Preiti (Sociometrica) in collaborazione con Pragma, eccone un’anticipazione:

     



     

    State ancora attaccando i cartelloni sui bus? Oggi è necessario mixare i mezzi di comunicazione, la tv è importante ma da sola non è determinante. Come spiega Preiti al Foglio: “Internet è diventato il media più importante per la politica, e ha quasi raggiunto la tv, mentre i giornali sono surclassati. Addirittura il 46 per cento di chi ha votato per Virginia Raggi indica proprio in internet la fonte più significativa per una buona informazione politica. Il secondo elemento è che siamo davanti a un dominio dei sentimenti rispetto al voto. Raggi ha raccolto sia la rabbia che la fiducia, così come Sala ha raccolto la fiducia, e non ha avuto bisogno della rabbia, perché Milano ne esprime molto meno che Roma. Oggi il punto debole della società è rappresentato soprattutto dagli anziani: nella graduatoria di chi si sente deprivato (visione soggettiva) sono i pensionati, seguiti dai disoccupati e poi dagli impiegati. A differenza della narrazione comune che vuole il disagio concentrarsi tra i giovani per mancanza di lavoro, il vero dramma sta più negli anziani, dei pensionati e di coloro che non lo sono ancora. E soprattutto si concentra tra le donne. Dal punto di vista politico siamo davanti a un tripartitismo imperfetto (una nuova invenzione dell’Italia) con un voto fluido e mutevole. Il 40 per cento degli elettori ha deciso nelle ultime settimane e l’11 per cento il giorno stesso del voto. Si tratta di un voto molto fluido che cambia rapidamente al cambiare dell’offerta politica e delle circostanze elettorali”. Ok, poi bisogna aprire le porte reali, mettere le scarpe sul marciapiede. Alla fine, a Roma si è sentito il sinistro rumore del cedimento strutturale: craaaaac! Scollegate la PlayStation di Orfini, disponete la sagoma di Luciano Nobili in un museo. Il Pd romano ha bisogno di dimissioni, aria fresca. Con tutto il rispetto, andate a lavorare. Se il partito si squaglia nel ballottaggio, te ne devi andare. E lo stesso va fatto a Torino, dove il pur bravo Fassino con il suo partito non si può ritirare sdegnosamente in collina e nascondere dietro un “la destra ha votato Appendino”. Qualcuno dovrà pur chiedersi come mai il partito di Renzi sia diventato respingente e non attraente per gli elettori moderati. Chi ha votato per i candidati di Grillo e viene dall’area del centrodestra (che fu) non è un elettore idrofobo, ma uno che sta cercando un’offerta politica nuova: i voti sono voti, non fanno schifo, non hanno la erre moscia, contano uno, sono tutti uguali. Il Pd cosa vuole fare? Inseguire la sinistra vagheggiata da Repubblica? Tanti auguri. Il risultato di Torino non suggerisce nulla? Il Pd non ha forni dai quali prendere pane e il suo non basta. Messo così, è perdente. L’avversario ideale per il Movimento 5Stelle.

     

    Il voto degli arrabbiati? La protesta? Andateci cauti. Ecco un’altra tabella della ricerca di Sociometrica in collaborazione con Pragma:

     



     

    Dovere e fiducia. Sono parole su cui riflettere prima di appiccicare una maschera sul volto di qualcuno. Ricordare Gramsci, conoscere l’avversario. La strategia del partito di Grillo è sempre stata militare: democrazia interna zero, mobilitazione permanente delle truppe, espulsione dei dissidenti, la guerra vista come una serie di poche battaglie decisive. Il resto non conta nulla. Grillo pesa con scaltrezza quello che fa notizia, crea immaginario, alimenta il mito dell’avanzata della sua invincibile armata. Roma. La Città Eterna. Che botta. Caffè ar vetro e titolo del Messaggero: “Raggi sindaco, sorpresa Torino”. A Milano i pentastellati non hanno mai pensato di sprecare tempo. E Torino allora, che è successo alla nobildonna del Nord? Perché ha tradito? Il risultato della città piemontese sembra un’anomalia, ma non lo è perché molte feste fa nei salotti della borghesia il tappo è saltato, è schizzato sul tetto e lo champagne è finito sul tappeto: liberi tutti, Fassino è andato disteso anche lui sul pavimento, insieme al tappo. Non occorreva essere sommelier per sentire un sapore di muffa. E si è visto il risultato finale. E’ riduttivo il titolo della Stampa: “Roma e Torino, vince la protesta”. C’è ben altro nella parte sommersa dell’iceberg elettorale. Si coglie almeno in parte nel titolo di Carlino-Nazione-Giorno impaginano un “Roma e Torino capitali grilline”. Appunto, capitali. Nobili e decadute, certamente, con il trucco disfatto, con molte rughe (anche se Torino resta splendida), ai margini d’Europa rispetto a Milano, ma la storia alla fine non mente mai e se i pentastellati conquistano luoghi dove ci sono i parlamenti che hanno costruito questa nazione, qualcosa vorrà pur dire.

     

    Sono i ballottaggi a mostrare impietosamente la scarsa capacità di aggregazione di questo Pd. Le campagne elettorali sono locali, ma il messaggio dei candidati a Roma, a Torino e anche a Milano sembrava un soggetto cinematografico del cinema realista sovietico: cancellate le idee liberali, zero spazio alle proposte delle liste civiche, statalismo e carezze per andare a cercare con la lanterna della demagogia una gauche senza voti e neanche caviar. Il risultato di Sala a Milano è un’illusione ottica, non sposta di una virgola il problema del Pd di Renzi che si riduce a una sola domanda iniziale e finale: che cosa è? Nell’attesa di una risposta (che Renzi deve dare a se stesso, prima di tutto) non è per niente consolatorio vedere che i Cinquestelle hanno sostituito il centrodestra. La sua salvinizzazione è arrivata al dunque, cioè al nulla rappresentato perfettamente dalle felpe del presunto leader. Il processo di desertificazione politica dell’area moderata continua, i voti passano rapidamente a Grillo e il Pd continua a dibattere su “l’abusivo”, sul segretario, mentre quest’ultimo è chiaramente confuso, smarrito, in una frase: Renzi non sa che fare. E non ha molto tempo per pensarci. Ottobre è il mese del referendum costituzionale e da quel momento tutto diventa possibile: una sua vittoria, una sua traumatica sconfitta, un governo tecnico, una crisi finanziaria, le elezioni anticipate. Con l’Italicum. E il doppio turno. Visti i risultati nei Comuni, uno scenario perfetto per Grillo. Buona giornata.

     

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    Brexit, testa a testa. Il voto che conta è nel Regno Unito. A tre giorni dal referendum inglese, il risultato è in bilico. Il distacco che sembrava aver accumulato il Leave nei confronti del Remain nelle ultime due settimane si è quasi azzerato. Secondo l’Economist ora il vantaggio del Leave è di un solo punto: 40 a 39. David Cameron ha detto che se perde non si dimetterà. Forse Matteo Renzi dovrebbe trarne qualche lezione utile in vista del suo referendum.

     



     

    20 giugno. Nel 1789 i deputati del terzo stato francese effettuano il Giuramento della Sala della Pallacorda.