Liberate Gramsci dai cultural studies

Matteo Marchesini

La paradossale originalità dell'ideologo sembra ormai offuscata dalla spy saga sulla Spectre togliattiana

Tra la fine del 900 e oggi, l’ombra di Antonio Gramsci è stata evocata soprattutto per chiuderla nella triste cella dei cultural studies o per ricondurla alla spy saga sulla Spectre togliattiana. Tutto ciò, temo, ha relegato sullo sfondo i tratti essenziali della sua figura, che forse a ottant’anni dalla morte vale la pena ricordare. Magari partendo dal dato più ovvio: la paradossale originalità del Gramsci maturo nasce dalla tensione tra l’isolamento e lo slancio militante, tra l’ansia di totalità enciclopedica e gli appunti frammentari di un uomo privo di libri e di interlocutori. Mentre il regime fascista si stabilizza e la terza internazionale si consegna a Stalin, uno dei più acuti ideologi del comunismo trova la sua espressione più libera dentro un carcere, in uno stile che grazie a una singolare miscela di aridità razionalistica e lampi epigrammatici aderisce con perfetta funzionalità all’osso del pensiero. Perciò la sua lezione di politico marxista non è immediatamente politica né tradizionalmente marxista.

 

 

Gramsci si forma durante la reazione contro il positivismo: quindi anche contro il socialismo che positivisticamente riduceva la società a un gioco fisico di forze. Croce, Gentile, La Voce e i futuristi enfatizzano la possibilità di trascendere le condizioni materiali; e lo stoico sardo approdato a Torino trasferisce questo antideterminismo nella sua militanza, insieme a una forte vocazione pedagogica. Davanti al ’17 russo parla di “Rivoluzione contro il ‘Capitale’” di Marx: in Lenin, che sembra portare all’avanguardia una società arretrata saltando i passaggi presupposti dal filosofo tedesco, vede una volontà motrice superiore all’economia. Un tale “idealismo” spiega l’insistenza sui temi della cultura. Del resto è su questo terreno che si radicano nel ’900 le più autorevoli teorie ispirate al marxismo (si pensi a Lukács, come Gramsci influenzato da Bergson, o ai francofortesi): sia perché lo spazio della prassi è divorato da burocrazie partitiche e monopoli, sia perché nella società di massa la “sovrastruttura” reagisce a sua volta sulla “struttura”. Di qui viene la concezione gramsciana dell’“egemonia”, secondo cui una classe s’impone anche attraverso la pervasività di certi modelli culturali e morali.

 

Gramsci riflette sul contrasto che esiste nella storia italiana tra “nazionale” e “popolare”, sugli scrittori più simili ai propri antenati del ’500 che a un contadino loro contemporaneo, e immagina di colmare lo iato con un corpo d’intellettuali organici al movimento operaio, capaci di far la spola tra senso comune e saperi specialistici. Ma nel Dopoguerra, mentre si diffondono i “Quaderni”, questo umanesimo di massa sarà beffardamente realizzato e dissolto dal boom e dalla tv, in un contesto ormai impermeabile a qualunque progetto pedagogico. In una lettera del luglio ’33, Gramsci racconta un delirio che sembra quasi un’allegoria del dramma vissuto da chi crede nella “andata al popolo”, cioè nell’idea che si possa instillare in un gruppo sociale una “coscienza di classe”: “Pare che per una notte intera”, scrive, “ho parlato dell’immortalità dell’anima in un senso realistico e storicistico, cioè come una necessaria sopravvivenza delle nostre azioni utili e necessarie e come un incorporarsi di esse (…) al processo storico universale ecc. Ad ascoltarmi era un operaio di Grosseto che cascava dal sonno e che credo abbia creduto che impazzissi, secondo l’opinione anche della guardia carceraria di servizio”.

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