Gene Wilder durante le riprese di Frankenstein Jr. del 1974 (foto LaPresse)

Non solo Frankenstein: ode a Gene Wilder, un fuoriclasse capace di far da spalla

Mariarosa Mancuso
“Uno dei grandi talenti della nostra epoca. Ha illuminato con la sua magia i film che abbiamo fatto insieme. Con la sua amicizia ha illuminato la mia vita”, ha twittato il regista Mel Brooks. Insieme erano imbattibili. Separato dal regista che meglio lo sapeva valorizzare, la bravura rimane indiscussa, ma i capolavori assoluti si fanno più rari.

Solo ricordi commossi, del genere sincero e non di circostanza (come può capitare, non solo a Hollywood). Solo lodi sperticate, del tipo che si fanno ai fuoriclasse capaci di far da spalla, se il passo indietro serve. Scrive su Twitter Mel Brooks, ora novantenne regista di “Frankenstein Junior”: “Uno dei grandi talenti della nostra epoca. Ha illuminato con la sua magia i film che abbiamo fatto insieme. Con la sua amicizia ha illuminato la mia vita”.

 

 

Oltre a “Gobba, quale gobba?”, Gene Wilder aveva condiviso con il regista le fatiche di “Per favore non toccate le vecchiette” e di “Mezzogiorno e mezzo di fuoco” (“The Producers” e “Blazing Saddles” in originale: si apprezza lo sforzo, lo stesso che portò a inventare l’ormai classico “lupo ululì e castello ululà” per un gioco di parole non altrimenti traducibile). Clovis Leachman – più nota come Frau Blucher (nitrito laggiù nella stalla) – racconta al sito Deadline scene rigirate quattordici volte: Gene Wilder sentiva l’accento germanico della signora con la crocchia e non riusciva a stare serio.

 

 

 

In “The Producers” si chiama Leo Bloom (che ricorda Leopold Bloom, protagonista dell’“Ulisse” di James Joyce), contabile al servizio di un impresario fantasioso con il riporto. E’ bastato al critico del Guardian James Bradshaw per tracciare un audace paragone con Donald Trump. Siccome l’impresario con il tappetino in testa mette in scena a Brodaway spettacoli orribili – con lo scopo di smontarli dopo la prima, incassando i soldi dei finanziatori – immagina che Donald Trump si sia candidato alla presidenza degli Stati Uniti solo a beneficio del suo programma tv “The Apprentice”. Le spara grosse per nascondere le sue vere intenzioni, senza rendersi conto che ogni proclama delirante gli procura voti e simpatie. Dovesse spuntarla, il parallelismo sarebbe completo. Nel film, il nazi-musical “Primavera per Hitler” – scelto da un mucchio di copioni schifosi perché inguardabile, chi mai vorrà vedere una giarrettiera a forma di svastica? – viene applaudito dal pubblico e incensato dalla critica.

 

Insieme, Mel Brooks e Gene Wilder erano imbattibili. Fu Anne Bancroft a presentarli, avevano recitato insieme nel 1963 in “Madre Coraggio e i suoi figli” di Bertolt Brecht, lei era fidanzata con Mel Brooks e non ancora nella memoria erotica dei giovanotti anni 60 come Mrs Robinson ne “Il Laureato”. Separato dal regista che meglio lo sapeva valorizzare, la bravura rimane indiscussa, ma i capolavori assoluti si fanno più rari. Con “Il fratello più furbo di Sherlock Holmes” debuttò nella regia. Con “La signora in rosso” regalò a Kelly LeBrock un posticino memoria erotica degli spettatori anni 80. Woody Allen lo volle in “Tutto quel che avreste voluto sapere sul sesso”, innamorato di una pecora (ruolo bastante a stroncare una carriera). Per un documentario della Pbs gli chiesero “quanto ha contato l’incontro con Mel Brooks?” Risposta: “Quando Dio parlò a Mosé, non avreste osato chiedere a Mosé se l’incontro era stato importante per lui”. 

 


Gene Wilder durante le riprese di Frankenstein Jr., con Teri Garr, Marty Feldman e Mel Brooks (foto LaPresse)


 

Era nato Jerome Silberman, mentre Mel Brooks era all’anagrafe Melvin James Kaminsky. Possiamo prenderli come esempio, e come spauracchio, per le coppie dello spettacolo che Dio – o l’invidia, o la vanità, o la voglia di non finire come “I ragazzi irresistibili”, sempre a rifare lo stesso sketch – acceca e fa separare. E’ capitato, parlando di tv, a Nick Pizzolatto e a Cary Fukunaga, la grandissima coppia dietro la prima stagione di “True Detective”. Pizzolatto scriveva, Fukunaga dirigeva, e noi stavamo attaccati allo schermo. La seconda stagione, senza Cary Fukunaga, ha avuto più pernacchie che lodi. Quanto alla terza, a parte un generico annuncio che la serie antologica “non è morta”, non si vede finora un volontario che voglia caricarsi il fardello.

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