Michael Cimino (foto LaPresse)

Quel disastro commerciale di Michael Cimino e il suo libro poco memorabile

Mariarosa Mancuso

Morto sabato a Los Angeles, il regista del "Cacciatore" fece fallire la United Artists per girare "I cancelli del cielo". Una vita in cui molti fatti raccontati non sono accertati, tranne la sua sfacciataggine.

Cinque giorni di ritardo sul set di un film che prevede due mesi e mezzo di lavorazione si possono perdonare. Meno perdonabili sono novecentomila dollari spesi per fabbricare un minuto e mezzo di materiale buono per il montaggio. Aggravante: erano passati solo sei giorni dall’inizio delle riprese. Recuperare? Macché: allo scadere della seconda settimana, Michael Cimino era dieci giorni in ritardo sulla tabella di marcia (mentre una schiera di attori ad attendere ordini, in costumi di fine ottocento: Kris Kristofferson, Isabelle Huppert, Joseph Cotten, Christoper Walken, John Hurt). Fissa era rimasta la tariffa di un milione di dollari al minuto. Su 12 di budget per l’intero film, questo la United Artists aveva ingenuamente scritto nel piano di produzione.

 

“I cancelli del cielo” ne bruciò 44, tempo un un annetto. Ne incassò uno e mezzo, per aver chiare le proporzioni del disastro. Racconta i dettagli – ancora si avvertono le goccioline di sudore freddo che gli scendono sul collo – Steven Bach nel suo libro “Final Cut” (1999, Newmarket Press). Vicepresidente della United Artists e capo della produzione internazionale, Mr Bach corteggiò e fece scritturare dallo studio il giovane regista del momento. Uscito nel 1978, “Il cacciatore” aveva entusiasmato i critici, conquistato il pubblico, vinto 5 Oscar su 9 candidature, candidandosi come Grande Epica Americana dopo “Il padrino” di Francis Ford Coppola. Raccontava i bravi ragazzi partiti per il Vietnam, lasciando la caccia al cervo e il lavoro in acciaieria, e tornati sbalestrati dopo la roulette russa.

 



 

A Michael Cimino avevano dato carta bianca. La prese senza pudore e senza pietà, cacciando i produttori dalla sala di montaggio e uscendone con tre ore e mezza di film. La United Artists – gloriosa major fondata nel 1919 da Douglas Fairbanks, Mary Pickford, D. W. Griffith, Charlie Chaplin che volevano mettersi in proprio – miseramente fallì. Le altre grandi major impararono la lezione, e gli altri registi della nuova Hollywood pagarono anche per lui. Michael Cimino non si pentì neppure per un minuto: “Tutti possono sbagliare, non ho mai ripensamenti. La vita da reietti non è poi cosi male, se ci fai l’abitudine”.
Dal 1980 a oggi sono 5 le versioni del film in circolazione. L’ultima dura 216 minuti, è stata presentata alla Mostra di Venezia nel 2012. Il regista ha passato anni a portare in giro di festival in festival la cara salma – accuratamente restaurata, ha ormai un posticino nel paradiso dei capolavori maledetti. Resta un film esageratamente lungo, esageratamente manierista, esageratamente coreografato, con paesaggi e schiere di comparse in posa plastica (a uno straccio di trama e a un montaggio più serrato penserà qualcun altro).

 

Tema: la lotta di classe nel Wyoming di fine Ottocento, immigrati europei contro proprietari terrieri. Michael Cimino non girerà altri film memorabili, sappiamo però che tra i progetti folli aveva un “Delitto e castigo”. Non tutto è accertato nella biografia del regista, fa notare Variety nel necrologio. A cominciare dalla chirurgia plastica che gli ha devastato il viso paffuto da ragazzo italoamericano. Rimane intatta solo la sfacciataggine. Scrisse un romanzo intitolato “Big Jane” (in italiano da Fandango), e lo collocò tra Melville e Kerouac, con la motivazione: “Moby Dick ha introdotto lo spazio nella letteratura americana, ‘On The Road’ ha introdotto la velocità, nel mio libro ci sono tutte e due”. Non era vero niente, ma siccome l’editoria costa una miseria rispetto al cinema, nessuno si fece male.

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