L'Italia ignota, spiegata con 10 indicatori

Roberto Volpi
Dalle tempistiche dell’aborto alla criminalità, dai voti di laurea ai nomi. C’è un paese sconosciuto.

1. Facciamo così, partiamo da uno di quegli indicatori periferici, mai guardati né cercati da alcuno, negletti: il tempo intercorrente tra la certificazione per l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) e l’esecuzione dell’Ivg. Proprio una quisquilia. Ma è qui che si annida l’inefficienza. Del resto l’Unione europea non ha ancora finito di bastonarci per “il diritto negato all’interruzione volontaria di gravidanza” per colpa di quegli oscurantisti dei medici obiettori che si addensano al sud come cavallette fameliche su un campo di grano. Non sembrerebbe avere torto l’Ue: al sud 83 medici ginecologi su 100 sono obiettori, cosicché ci sono meno di 200 medici non obiettori. Per circa 24 mila Ivg l’anno, però, cosicché la media è pur sempre di 120 Ivg l’anno a medico non obiettore, una Ivg ogni tre giorni: non propriamente una fatica di Sisifo. Non bastasse, ecco affacciarsi il nostro indicatore del tempo di attesa a fare sberleffi. Proprio al sud il tempo di attesa tra certificazione ed esecuzione è il più basso: ben il 71 per cento delle donne richiedenti Ivg sono accontentate entro 14 giorni da quando presentano la certificazione. Questa percentuale è di 10 punti inferiore al nord, addirittura di 15 al centro. Ora, la prossima volta che all’Ue la meneranno con questa storia, ed è sicuro che lo faranno, consiglio alla ministra Lorenzin di portare ai nostri solerti censori i risultati di questo indicatore: è l’ora che se lo imparino, dalle parti di Bruxelles.

 

2. Non vorrei che, col sud, si pensasse di chiudere il conto a questo punto. Centinaia di indicatori ci dicono che le cose non vanno come dovrebbero. Li conosciamo, inutile tornarci. Se non per un “dettaglio” che si chiama lettura. Un po’ di calcoli dicono, ahimè, che la media dei libri letti a persona (dai 6 anni in su) nel nostro sud si ferma a 1,3. Poco più di un libro letto a testa all’anno. Non che l’Italia spopoli, col suo 2,4. Ma al nord si superano agevolmente i 3 libri. Come può il sud pensare di risalire la corrente, di imprimere una svolta al suo destino economico-produttivo se non innalza prima di tutto i suoi consumi culturali, a cominciare dalla tanto bistrattata lettura?

 

3. Dal sud all’estero il passo è breve perché sono soprattutto del sud gli italiani residenti all’estero. E questi italiani meritano bene una considerazione, perché da qualche tornata elettorale a questa parte hanno diritto al voto, ma lo esercitano col contagocce. Che dell’Italia gliene interessi il giusto, agli italiani all’estero, si sa ma non si dice per non sembrare irriverenti, dunque se votano assai meno della metà di quanto votano gli italiani residenti in Italia, che per parte loro non si scapicollano più in questo esercizio, lasciamoli in pace senza tanti moralismi. Alle ultime politiche hanno votato appena in 32 su 100 (contro 75 su 100 degli italiani), in 23 su 100 al referendum d’aprile (ma hanno fatto poco meglio gli italiani col 31). E però uno si aspetterebbe che a votare andassero soprattutto quegli italiani che risiedono in paesi di più lunga tradizione politico-elettorale e di più stretta vicinanza culturale-democratica con l’Italia, insomma quelli che risiedono in Europa occidentale e segnatamente in Germania e Francia, paesi peraltro di forte insediamento italiano (la Germania, con 566 mila italiani residenti, è seconda solo, e di poco, all’Argentina). E invece niente. In Europa gli italiani votano quanto in Asia o in Africa. In Germania e Francia, poi, meno che in Papuasia o nel Congo. L’accoppiata Germania-Francia figura in testa nella disaffezione al voto degli italiani per la madrepatria.

 

4. Restiamo sulle elezioni, già che si sono appena tenute le comunali. Chissà se gli stessi aspiranti sindaco di Roma hanno un’idea di quanto è grande Roma. Ma non in senso per così dire alla Venditti, sentimentale, quanto piuttosto letterale, della superficie che occupa la Capitale. Ecco l’indicatore, allora: quasi 1.300 chilometri quadrati, un immenso cerchio d’una trentina di chilometri di diametro o se si preferisce un riquadro territoriale di 50 per 26 chilometri, le dimensioni di una provincia. Sette volte l’estensione del comune di Milano, undici volte il comune di Napoli. Più grande di Parigi, poco meno di Londra, che però è la grande Londra e ingloba l’inglobabile nei suoi confini mentre da noi se lasci qualche decina di metri di terra di nessuno ecco subito spuntare un altro comune con altri cartelli e altri confini. Roma è proprio Roma e nient’altro, e non finisce mai, deborda, continua all’infinito, c’è sempre un’altra Roma dietro l’angolo. Una città pienamente orizzontale, fatta apposta per centinaia e centinaia di chilometri di metropolitana – non fosse che c’ha pure il fardello d’un sottosuolo che la storia ha reso quasi imperforabile. Fatta per trasporti di superficie a misura di cronometro. L’estensione di Roma è tale che non può vivere senza trasporti che funzionano al meglio. Memorandum per gli aspiranti sindaci: far funzionare i trasporti, come non possono non funzionare in una città delle dimensioni di Roma. O amputare quelle dimensioni, farci altri comuni. Delle due l’una.

 

5. E però Roma con la sua esagerazione non sfigura come capitale delle esagerazioni italiane. Ce n’è una, tra queste esagerazioni, che stranamente sfugge. Per incontrarla basta passare dai voti elettorali ai voti di scuola. Meglio, di università. Per dire che il voto di gran lunga più frequente agli esami di laurea è il 110 e lode. Ci arrivano 23-24 laureati su 100, quasi uno su quattro. Attenzione, non a 110, proprio a 110 e lode. Ma non era una volta la lode qualcosa che coronava, summa cum laude, un traguardo per pochi, pochissimi tra geni e persone di appena buona intelligenza ma con una volontà di ferro che rivedevano il sole dopo un’immersione, tantrica a dir poco, in anni e anni di studio senza misericordia? E ora uno studente su quattro arriva così, come niente fosse, alla lode? Mutazione antropologica, viene da pensare. Macché, cambio di paradigma culturale, più banalmente. Una volta i professori pensavano che il merito fosse a tal punto raro da doversi ricercare con il lanternino, oggi, illuminato da internet, rifulge talmente in tutti gli angoli che non c’è più neppure da cercarlo, tanto è spiattellato. Si presenta da solo: sono il merito 110 e lode. I professori non possono che prenderne atto e lo rifilano a destra e a manca. Così come nel mondo del lavoro e delle professioni a destra e a manca se ne sbattono.

 

6. Nello spazio di appena un decennio, l’ultimo decennio, la percentuale di quanti scelgono nel matrimonio la comunione dei beni è crollata dal 44 per cento a meno del 30 per cento, con una contrazione annua dell’1,5 per cento che, se prolungata, porterebbe all’esaurimento a zero della scelta della comunione dei beni nello stretto giro di altri due decenni. Anche qui, cosa succede di tanto effervescente da determinare un rapidissimo cambio di paradigma culturale che condanna la comunione dei beni nel matrimonio a risultare vieppiù marginale, una scelta degli sposi in via di rapido e sembra proprio non reversibile inabissamento? Sì, indubbiamente la prospettiva del divorzio, sempre incombente. Ma il divorzio non è in grande spolvero negli ultimi dieci anni, la grande corsa s’è piuttosto fermata. E’ il modo con cui si guarda alla responsabilità nel e del matrimonio, allora, a essere cambiato. E’ quell’angolo di visuale. Ci si sposa, se proprio si deve, al minimo del condizionamento reciproco possibile. Non sia mai che davvero si debba condividere la vita in due.

 

7. Vita sempre meno ambita, quella a due. Al riguardo, indicatori impietosi si susseguono senza sosta. Per dirne uno, tra i 40 e i 50 anni i celibi sono passati da poco più di un milione degli inizi del Duemila a 2,4 milioni nel 2015, un aumento del 133 per cento. Il significato più profondo di un aumento di una tale entità è questo: trascorsa l’età, non ci si sposa più. E non basta che l’età media al matrimonio si sposti sempre un poco più in là, perché sempre più persone la lasciano comunque sfilare senza decidersi a quello che una volta veniva definito il gran passo. Tuttavia i coniugati hanno un modo di vendicarsi della contrazione del loro numero rispetto a quello in grande spolvero dei celibi: campando di più. Curioso, ma vero. Nello stesso intervallo di tempo tra il 2002 e il 2015 che celebrava il trionfo quantitativo dei celibi sui coniugati, l’età media dei primi aumentava di 2,3 anni mentre quella dei secondi di 3,8 anni, il 65 per cento in più. Ch’è un po’ come dire che la speranza di vita o vita media era sì cresciuta anche per i celibi, ma tra i coniugati i due terzi di più. Morale della favola: sarà pure vero che tutto fa famiglia, ma in questo tutto fare famiglia perché basta l’amore (a) il numero dei nati si affievolisce sempre di più e ci porta al suicidio demografico e (b) quelli della famiglia tradizionale, moglie e marito, acquistano più anni di vita degli altri. Quasi una vendetta alla Tutankhamon.

 

8. A proposito di vendetta, sembrerebbe una vendetta in piena regola, in quanto certificata da tanto di statistiche, quella che vuole il sud a più alto tasso di criminalità del nord. Perché invece ecco il responso redatto, appunto, dalle statistiche: province più sicure, nell’ordine: Benevento, Matera, Enna, Oristano, Avellino e Crotone. Prima della lista per pericolosità, nientemeno che Milano. Roba da brividi. Davvero dunque ci avevamo capito così poco, nei fenomeni criminosi? Scambiare lucciole per lanterne può starci, ma uno stravolgimento così radicale di ogni nostro più riposto pensiero e pure sensazione come si spiega? Tranquilli, si spiega eccome. Per intenderci: se in autobus mi sfilano il borsellino o se non trovo più la bicicletta che pure avevo inchiavardato ben bene posso precipitarmi a denunciare borseggio e furto ai miei danni. Ma anche no, pensando che tanto è tutta fatica sprecata, che nessun poliziotto si metterà mai sulle tracce dei ladri di biciclette e quant’altro. Ma se non denuncio, niente crimine e niente statistica. Così, la graduatoria della criminalità, che vede ai primi posti tutte e solo province del nord, non svela affatto l’intensità della criminalità, dal momento che non si basa sui reati ma sulle denunce dei reati. E dov’è che si denuncia? Dove c’è più fiducia nelle forze dell’ordine e nella magistratura, vale a dire al nord. Ci sono stati anni in cui capitale del borseggio era Bolzano, figurarsi. Converrebbe leggere i dati della criminalità al rovescio, piuttosto che a diritto. Avremmo un indicatore più aderente alla realtà.

 

9. E per una statistica sfuggente che induce a conclusioni come minimo opinabili ecco una conclusione opinabile frutto dell’ignoranza di statistiche che non si prestano a letture sfuggenti: quella secondo la quale più un paese, una regione è ricca più ha una minore distribuzione della ricchezza, più è povera e più ha una maggiore distribuzione della ricchezza. L’equità figlia della povertà, piuttosto che non della ricchezza. E’ questo un pensiero che piace, poco da farci. Il suo contrario no, non ci convince. Questione di pelle, proprio. Perché invece i valori dell’indice di Gini, che misura la concentrazione della ricchezza, dicono, da quando sono calcolati, esattamente l’inverso. L’indice di Gini supera largamente il valore di 0,3 (massimo della concentrazione 1, tutta la ricchezza nelle mani di una sola persona) nelle regioni del sud, dalla Sicilia alla Campania alla Calabria. Un valore che non viene raggiunto e neppure sfiorato da nessuna regione del nord. Tra le regioni con più bassa concentrazione: il Veneto, la Toscana, la Lombardia. Intendiamoci, i distacchi non sono trascendentali, non potrebbero esserlo, il sistema economico è pur sempre quello, il nostro, quello italiano. E tuttavia tra la Lombardia (indice = 0,275) e la Sicilia, regione con la più alta concentrazione della ricchezza (indice = 0,327), passa un 16 per cento di migliore distribuzione della ricchezza a favore della ricca Lombardia, che pure non è la regione con la minore concentrazione della ricchezza. Non propriamente una differenza trascurabile.

 

10. Chiudiamo su una nota di leggerezza. Con un indicatore costruito ad hoc che dimostra che c’è un’effervescenza femminile in circolazione in questo paese che comincia sin dalla nascita, e più precisamente dai nomi dei bambini. Tra il 1999 e il 2014 nella graduatoria dei primi 50 nomi tra i maschi ne sono cambiati 7 (sette nomi ch’erano tra i primi 50 nel 1999 nel 2014 non ci sono più e al loro posto ce ne sono sette nuovi), tra le femmine 15, più del doppio. In questi 16 anni sono state in testa, tra le femmine, un anno ciascuna Sara e Alessia, due anni Martina, dopo è stata la volta, per sette anni di seguito, di Giulia, mentre ora è da cinque ch’è in vetta Sofia. Vi sembra che ci sia una certa stabilità in testa? Fate il confronto coi maschietti. Anni 1999 e 2000: primo Andrea. Poi 2001-2014: primo Francesco per 14 anni di fila. Tramonterà molto prima la prima posizione di Sofia di quanto non succederà con Francesco. Francesco precede alla grande lo staccatissimo Alessandro, mentre Sofia è davanti a Giulia appena di un’incollatura. Un ribaltone appare difficilissimo tra i maschi, molto probabile tra le femmine. Ma sono pur sempre i genitori a scegliere i nomi delle une e degli altri, si dirà. Indubbiamente. E però la fantasia si scatena soprattutto sui nomi femminili. Così tra i maschi entrano in graduatoria nomi nuovi fatti per soppressione dell’ultima vocale dei vecchi: Gabriel, Cristian, Manuel, Samuel, Daniel, mentre tra le femmine è il trionfo dei nomi nature: Sole e Luna, Stella e Aurora, Gaia e perfino Gea. Non c’è partita. Sin dalla nascita, appunto.

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