L'opera di Anthea Hamilton arrivata finalista al Turner Prize

L'arte inglese non è più tormento e sottocultura, ma invenzioni e glutei

Sofia Silva
Svelati i quattro finalisti del celebre Turner Prize, il prestigioso premio riservato agli artisti under 50 nati o residenti da lungo tempo nel Regno Unito. Gli artisti selezionati sono Michael Dean, Anthea Hamilton, Helen Marten e Josephine Pryde e i loro lavori sono piuttosto giocosi, ammiccanti, ironici, turbati da turbamenti millennial, sweet and soft.

Anche quest’anno sono stati annunciati i quattro finalisti del Turner Prize, il prestigioso e rimunerativo premio riservato agli artisti under 50 nati o residenti da lungo tempo nel Regno Unito. Negli anni Novanta visitare la mostra del Turner Prize significava vivere un’avventura estetica di scandalosa bellezza o squallore, o, più spesso, di entrambi. Nessuno sapeva cosa aspettarsi da Damien Hirst (una vacca e un vitello in formaldeide, Mother and Child Divided), da Tracy Emin (il proprio letto sfatto, sporco, sudato, My Bed), da Chris Ofili (il ritratto di una donna dipinta con sterco di elefante, No Woman, No Cry), da Grayson Perry (meravigliose e bambinesche ceramiche, Village of Penians). Negli anni Duemila il gran vociare di questi artisti anni Novanta, folkloristici, monumentali, post-punk, aggressivi, è stato tamponato da un’arte estremamente rifinita, intellettiva, scritta e circoscritta, astratta o estetizzante: il Regno Unito è corso ai ripari in un concettualismo soft camuffato da video-arte, sound art, installazioni e pittura.

 

In questo 2016 si cerca di cambiare ancora una volta. Gli artisti selezionati sono Michael Dean, Anthea Hamilton, Helen Marten e Josephine Pryde, un uomo e tre donne.  Nessuno di loro lavora con la materia, ma tutte le opere sono frutto di ricerche su materiali specifici ed eloquenti, nessuno tra gli artisti inventa una nuova estetica (con l’eccezione di alcune sculture di Dean), ma tutti commentano e si appropriano di estetiche altrui; nessuno ingaggia una ricerca devastante o romantica o tormentata, ma tutti i lavori sono piuttosto giocosi, ammiccanti, ironici, turbati da turbamenti millennial, sweet and soft: siamo ancora in pieno postmodernismo. Le opere non sono più smaccatamente britanniche come negli anni Novanta, potrebbero provenire da artisti di qualsiasi nazionalità, ritornano però ad avere un corpo e a cercare, se non di scandalizzare, almeno di stupire.

 

Hamilton è stata selezionata per degli immensi glutei sorretti da due mani e posti in mezzo a un muro di mattoni (ma i glutei non sono glutei, sono una rielaborazione di un progetto del designer italiano Gaetano Pesce), mentre Pryde è celebre per le sue doppie esposizioni di scansioni di feti nell’utero materno su deserti e montagne violette. Le opere di Marten sono collage tridimensionali delicati, geometrici e accumulatori mentre Dean utilizza materiali industriali o di scarto (lamiere, vecchi pezzi di rame, gommapiuma) e li assembla con tale armonia e levità che le sue installazioni più che discariche brillano come templi greci. L’edizione 2016 annuncia insomma che l’arte inglese non è più tormento, sottocultura, paesaggio, putrefazione, anale, Jane Eyre, eternità, vacche, polli e secrezioni, l’arte che faticosamente avevamo imparato ad amare, bensì un’arte che si riallaccia alla tradizione del folly, alle architetture d’invenzione a forma d’ananas, ai bizzarri castelli senza stanze che, da secoli, inglesi un po’ matti costruiscono per diletto, insomma opere, collage, assemblage, frutto di giochi linguistici e rebus visivi, di minimalista ironia sul minimalismo, di conoscenza tattile del futuro, un’arte che è passata dal pallore da obitorio degli anni Novanta a quello crioconservato di oggi.

Di più su questi argomenti: