Stephen King

Il giornalismo secondo Stephen King

Stefano Priarone
Nel racconto “Io seppellisco i vivi” il re dell’horror dice la sua sul mondo dell'editoria. Le avventure di Michael Anderson, il punto di vista dello scrittore e quello scontro silenzioso all'interno del mondo della scrittura: gli scrittori vincono sempre sui giornalisti.

“Ho sentito che una volta, ai tempi d’oro, in un passato mitico e lontano, a New York i giornalisti venivano invitati a pranzo in posti come il Four Seasons, il Le Cinque, il Russian Tea Room. A me, quel giorno toccò pranzare nell’ufficio disordinato di Jeroma Whitfield. Il menu consisteva in sandwich del negozio all’angolo e lattine di Dr.Brown’s Cream Soda.”

 

Chi racconta è Michael Anderson, giovane giornalista protagonista del racconto di Stephen King “Io seppellisco i vivi” contenuto nella nuova raccolta "Il bazar dei brutti sogni" (Sperling & Kupfer). Se King è famoso per i romanzi fiume, come i classici "L'ombra dello Scorpione" e "It" o anche il più recente 22/11/'63 (adattato in una miniserie televisiva con James Franco adesso in onda su Fox), in realtà ha spesso dato il meglio di sé nella forma breve. Era vero in passato, quando era uno scrittore wannabe che faceva l'insegnante di lettere malpagato, lo è ancora adesso che è un narratore di successo (quasi) accettato dalla cultura ufficiale malgrado il suo peccato originale di dedicarsi all'horror. E lo dimostrano i racconti di "Il bazar dei brutti sogni", in primis “Io seppellisco i vivi” che omaggia nel titolo “I Bury the Living”, un film horror degli anni Cinquanta che tanto aveva colpito il giovane Stevie (è classe 1947).

 

Anderson, dopo essersi brillantemente laureato in giornalismo riesce a lavorare, con una paga da fame per la webzine scandalistica “Neon Circus” dove cura la rubrica “Sparlare dei morti”, scrive una sorta di coccodrilli al contrario che gettano fango su star appena morte. La rubrica ha successo, ma quando si presenta dalla sua boss (la già citata Jeroma) per chiedere un aumento lei gli risponde: “Credi che nessun altro sia in grado di pisciare sulle tombe di quattro coglioni che si danno agli stravizi fino a crepare? Non è così. C’è la fila fuori di gente in grado di farlo, e magari sono anche più spiritosi di te”. Inferocito, Michael usa il computer dell’ufficio per scrivere il necrologio di Jeroma, che alcune ore dopo in effetti muore. Il file viene scoperto da Katie Curran, bella collega per cui sbava Michael, che lo sfida a usare di nuovo il suo “potere”, stavolta su un criminale in prigione per vedere se non è stata una coincidenza. Anche il tipo muore e Katie, eccitata, realizza le fantasie erotiche del nerd dichiarato Michael. Che però, sollecitato a rifarlo, si accorge che i suoi “necrologi dei vivi” uccidono anche gli omonimi nelle vicinanze, o persino quelli che hanno un nome simile. Decide allora di lasciare il giornalismo: nel finale del racconto ci dice che fa vari lavoretti, come l’imbianchino, a Laramie, nel Wyoming. Non ha più un computer, per non essere tentato di tornare a scrivere i suoi “necrologi” e non rimpiange il passato: l’unica che ci ha guadagnato è Katie che è subentrata a Jeroma alla guida di “Neon Circus”.

 

Che King nel racconto voglia dire la sua sul giornalismo è evidente, anche perché “Io seppellisco i vivi” è concepito come un lungo articolo. Michael nell’introduzione afferma di seguire le massime di Vern Higgins, il suo professore di giornalismo (“cominciate dall’inizio, sviluppate bene la parte centrale, così che ogni evento conduca in modo logico al successivo, poi arrivate alla conclusione”).

 

Da Fedeli Lettori (come King chiama i suoi appassionati) ci è venuto in mente il racconto dei primi anni Ottanta “Il word processor degli dei”, il primo pubblicatogli da “Playboy”. Per King un grande salto di qualità come scrittore visto che “Playboy” non è mai stata una rivista solo “erotica” ma ha pubblicato racconti di scrittori come Norman Mailer, Gabriel Garcia Marquez e John Updike, mentre King aveva iniziato pubblicando su riviste “per soli uomini” di serie B come “Cavalier” e “Dude”. Richard Hagstrom è un insegnante di inglese, che arrotonda lo stipendio scrivendo racconti, è sposato a una donna obesa e a ha un figlio adolescente che detesta. Avrebbe dovuto sposare la moglie del fratello, l’affascinante Belinda, morta in un incidente stradale con il marito e il figlio Jon, genietto che ha preparato un word processor “fatto in casa” per lo zio. Con quel word processor, che all’epoca sembra davvero una macchina del futuro, Richard scopre che digitando una frase e schiacciando Invio la può far avverare, se invece la cancella toglie dall’esistenza quello che ha scritto (anche se si tratta di persone reali). Prima che il word processor, allestito alla bell’è meglio dal ragazzo, vada nel suo paradiso elettronico, Richard riesce a ritrovarsi felicemente sposato con Belinda dalla quale ha avuto Jon come figlio.

 

King non è mai stato un autore di difficile interpretazione, e nel raffronto fra i racconti il suo punto di vista emerge in maniera davvero chiara: per lui gli scrittori vincono sempre sui giornalisti. La scrittura, come ha sempre sostenuto, è una forma di magia e sia gli scrittori che i giornalisti sono dei maghi. Ma lo scrittore crea nuovi mondi e cambia la sua vita, il giornalista, invece, può uccidere (in genere solo metaforicamente, non come Michael)  e spesso dei suoi articoli fanno le spese persone che non c’entrano nulla. E in anni di intercettazioni a strascico divulgate dai media non gli si può dare del tutto torto. Per la cronaca (espressione al tempo stesso desueta e abusata, ma che in un articolo come questo ci può stare), “Playboy” aveva pagato a King per “Il word processor degli dei” duemila dollari. Duemila dollari del 1983. Erano altri tempi anche per gli scrittori.

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