I marchi sguaiati non tirano più, e il reggiseno è in piena deriva etica

Giulia Pompili
Dimmi che mutande porti e ti dirò a quale generazione appartieni. Il mercato della lingerie, insieme con quello dell’abbigliamento, è un settore interessante per capire le dinamiche sociali della generazione di consumatori più attraente per le grandi firme.

Roma. Dimmi che mutande porti e ti dirò a quale generazione appartieni. Il mercato della lingerie, insieme con quello dell’abbigliamento, è un settore interessante per capire le dinamiche sociali della generazione di consumatori più attraente per le grandi firme (l’istituto Pew, lo ha raccontato ieri su queste pagine Ferraresi, ha fatto sapere che i millennial americani hanno superato i baby boomer, giusto per chiarire di quale target si parli). C’è stato un momento in cui i millennial hanno vissuto un violento innamoramento per i prodotti brandizzati. Il brand, appunto, che in italiano sarebbe il marchio. E’ un fenomeno socio-antropologico di massa ben noto: spinge il consumatore a indossare loghi sempre più grandi e riconoscibili, investendoli di un senso d’appartenenza a una classe sociale superiore alla propria (la dimensione del logo è di solito direttamente proporzionale al costo del capo d’abbigliamento: vedi l’evoluzione dell’omino che gioca a polo sui capi di Ralph Lauren).

 

Il caso di scuola è quello di Abercrombie and Fitch, che per anni ha venduto felpe riconoscibili a metri di distanza (l’alce e la scritta “Abercrombie” sul petto). Ad accompagnare il prodotto, la location di vendita: negozi profumatissimi, senza luci, pieni di ben più che atletici commessi. Tutti ricordano le code di italiani fuori al negozio di Abercrombie sulla Fifth Avenue di New York – spinti dall’esclusività del mercato americano, “le cose costano meno qui”, si sentiva dire da qualcuno in coda, giustificando la furba mossa di non acquistare nell’identico negozio che nel frattempo aveva aperto a Milano, in Corso Matteotti (era la fine del 2009). Nel 2014 il marchio Abercrombie in America era già in declino, ma il fatturato da e per l’Italia continuava ad aumentare. Poi, lentamente, pure qui sono iniziate a sparire le famose felpe rosse con l’alce. Qualcosa stava cambiando, cioè i millennial stavano cambiando.

 

L’altro caso di scuola è quello di Victoria’s Secret, e torniamo alle mutande, appunto. Il celebre marchio di intimo si sta riposizionando: ha tolto dalla collezione i costumi da bagno, nell’ambito di una ristrutturazione dell’azienda dovuta al calo di fatturato. Ora produce perfino una linea di mutande “hipster”. Victoria’s Secret aveva creato un mondo immaginifico fatto di bellezza e reggiseni improponibili, indossati con orgoglio e disinvoltura nelle sfilate delle Angels – le top model di Victoria’s Secret che per anni hanno rappresentato l’ideale di bellezza femminile. Per anni, perché adesso pare che i millennial non amino più tutto quel mondo fatto di lingerie sguaiata e culi sodi come marmo. Erin Heatherton, ex Angels, ha fatto la sua fortuna denunciando il trattamento da fame che le veniva richiesto per sfilare agli eventi di VS. Millennial indignatissimi, come quando a una commessa musulmana di Abercrombie fu impedito di indossare l’hijab. Tutta quell’attenzione per l’estetica non vende più perché non è politicamente corretta, e molto è già stato scritto su questa nuova attenzione sociale del millennial (Patagonia, un altro marchio costosissimo e riconoscibile, resiste per il suo “imprinting etico” che riguarda l’ambientalismo eccetera).

 

Ma c’è una riflessione ulteriore, fatta qualche settimana fa da Nikki Baird su Forbes: c’è una ragione se mentre questo genere di marchi un po’ rozzi e appariscenti soffrono la crisi, catene medium e low cost come H&M, Primark, Zara, continuano a fare buoni risultati: si tratta di essere “autentici”, cioè normali, ed essere riconosciuti come tali dai consumatori più giovani, che vogliono appartenere/essere identificati il meno possibile. C’entra il marchio? C’entra, perfino in Italia. Calzedonia, cui appartengono anche Intimissimi e Tezenis, è il terzo player italiano del settore moda-abbigliamento (pure Matteo Renzi fa parte di quei consumatori, lo ha detto all’inizio di aprile visitando lo stabilimento Calzedonia a Verona) e i prodotti del marchio italiano sono famosi per semplicità e fidelizzazione del cliente. Risultato? +9,3 per cento di fatturato nel 2015 rispetto al 2014. In pratica quelli che indossano le felpe Abercrombie oggi sono tendenzialmente i cinquantenni in crisi coniugale, che comprano regali all’amante giovane in un negozio Victoria’s Secret, pensando di fare cosa gradita. I soliti nostalgici della generazione X.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.