Gabriele Mainetti con il cast di Lo Chiamavano Jeeg Robot

I David di Donatello quest'anno sono talmente giusti che non sembrano veri

Mariarosa Mancuso

Non sembra vero. L’Accademia del cinema italiano che ogni anno assegna i David di Donatello ha premiato un film geniale come “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti. Senza lasciarsi commuovere da “Fuocoammare” e dai migranti di Gianfranco Rosi.

Non sembra vero. L’Accademia del cinema italiano che ogni anno assegna i David di Donatello ha premiato un film geniale come “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti. Senza lasciarsi commuovere da “Fuocoammare” e dai migranti di Gianfranco Rosi. Bisogna farselo ripetere due volte, e a mo’ di pizzicotti – sicuri che non stiamo sognando? – contare le altre statuette vinte dal film presentato in anteprima durante il Festival di Roma (mentre l’altro era alla Berlinale, con bacio accademico di Meryl Streep).

 

Miglior attore Claudio Santamaria. Migliore attrice Ilenia Pastorelli (viene dal “Grande Fratello”, bravissima e qui tenerissima nel suo attacco di “principessite”). Migliore attrice non protagonista Antonia Truppo. Migliore attore non protagonista Luca Marinelli (e la sua giacca di paillettes, e la medaglietta sul petto, e il suo modo di tenere il microfono, e le sue scarpe con i tacchetti, e la sua isteria). E miglior produttore sempre Gabriele Mainetti, altro premio meritatissimo.

 

In un cinema dove i soldi vengono generosamente elargiti anche a pellicole che già sulla carta (e qualcuna già allo stadio di soggetto) mostrano di non avere un’idea – neanche un’ideuzza, un barlume di intelligenza, qualcosa in grado di reggere le due ore… fate voi, la nostra lista nera è a disposizione – “Lo chiamavano Jeeg Robot” non lo voleva finanziare nessuno. Mancava, forse, “lo stato di particolare degrado”, formula ministeriale che – come fa notare Andrea Minuz in un suo studio – è condizione necessaria e spesso sufficiente per ottenere i fondi del Mibact.   

 

Macché, “lo stato di particolare degrado” c’era, eccome: il film è girato a Tor Bella Monaca, il gangster da strapazzo che mangia solo budini alla vaniglia diventa radioattivo avvicinandosi a certi bidoni gialli laggiù nel Tevere. Ma c’era anche una magnifica scrittura,  capace di alternare dialetto stretto e cadenze romanesche. E c’era un’ironia sottile. E c’era una storia contemporanea, sfuggita a chi preferisce finanziare l’ennesima pellicola sulla misteriosa morte di Pier Paolo Pasolini. E c’era una storia universale, che anche lo spettatore ignorante di supereroi giapponesi anni Settanta può apprezzare. 

 

A volere essere sempre un po’ scontenti, Gabriele Mainetti avrebbe dovuto ricevere il premio come migliore regista, non solo come migliore regista esordiente. Il critico di Variety ricorda ai suoi lettori che si tratta di un debuttante, nel lungometraggio almeno, ma nulla nel film lo rivela, neppure gli effetti speciali fatti in economia. Il David come regista non esordiente – assieme a molti premi “tecnici” ma in realtà decisivi per creare un mondo da favola: trucco, costumi, acconciature, scenografia, fotografia, effetti digitali – lo ha vinto Matteo Garrone con “Il racconto dei racconti” (leggi: “Il film più sottovalutato dell’anno”).

 

Il David di Donatello come miglior film lo ha vinto “Perfetti sconosciuti” di Paolo Genovese. Una cena tra amici rovinata dalla messa in comune dei telefonini: ogni messaggio o chiamata sarebbe stata pubblica, litigi garantiti, quindi. Il film che mezzo mondo sembra voler copiare, facendone un remake locale. E dire che a noi pareva già un timido rifacimento di “Carnage”, scritto da Yasmin Reza e diretto da Roman Polansky. Timido perché destinato a spettatori che vogliono riconoscersi, e quindi non accettano di essere trattati con la dovuta crudeltà.