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“La donna libera può cambiare l'islam”

Marco Valerio Lo Prete
Il numero uno della Cgil, Susanna Camusso: “Capisco le donne musulmane che si sentono tradite da noi progressisti. Abbiamo taciuto troppe volte su un’oppressione inaccettabile”. Utopia multiculti e paura dei populisti.

Roma. Dopo un tour de force di 40.000 assemblee sindacali concentrate in un mese e mezzo in tutta Italia, e alla vigilia di una mobilitazione nazionale sulle pensioni assieme a Cisl e Uil, Susanna Camusso accetta di ragionare con il Foglio su tutt’altro argomento: il terrorismo che colpisce nel cuore dell’Europa, l’islam, noi, l’integrazione e le donne, gli abbagli della sinistra sul multiculturalismo e il ruolo possibile del sindacato. Il segretario generale della Cgil parte da una convinzione: “La donna libera può riformare l’islam”. E nel suo ufficio di Corso Italia argomenta così le sue tesi.

 

“Ho sempre detto, e non vale soltanto per i paesi o le comunità islamiche, che la libertà della donna è il metro di misura della democrazia. La mancata libertà della donna pone un problema democratico perché comporta la negazione del diritto di cittadinanza per almeno metà della popolazione”. Continua Camusso: “La conquista della libertà della donna è un processo non ancora concluso nemmeno nel nostro paese, sia chiaro. Certo che il problema diventa più evidente all’interno di strutture politico-religiose non secolarizzate. D’altronde se un libro sacro come il Corano, attraverso la sharia, diventa il fondamento delle regole sociali, non può non sorgere un contrasto con le regole democratiche. Non che gli altri libri sacri del monoteismo trattino meglio noi donne: sottintesa c’è sempre la volontà di estendere la proprietà altrui sui corpi delle donne in quanto esseri che procreano”. Sul rapporto tra islam e donne “finora sono stati messi in luce solo singoli aspetti, penso alla meritoria battaglia dei Radicali contro le mutilazioni genitali femminili. Ma è il caso di prendere di petto il problema più generale”. Proviamo. “Si poteva capire già con la rivoluzione khomeinista del 1979. Apparve allora, e si capisce oggi da romanzi come ‘Leggere Lolita a Teheran’, che quella rivoluzione rappresentò un passo indietro per le donne. La costrizione a velarsi e ad autosegregarsi per metà della popolazione non poteva essere la spia di un avanzamento progressista”. E’ con quella lezione in testa che il leader del primo sindacato italiano, sfidando l’euforia mediatico-politica delle primavere arabe, di fronte all’ascesa al potere dei Fratelli musulmani in Egitto e ai casi di violenze sulle donne che si registravano in Piazza Tahrir al Cairo, disse già nel 2011: “Quella piazza, con quegli stupri, può davvero essere considerata una piazza progressista?”. “Poi però sono guardinga anche rispetto alle strumentalizzazioni che di questo discorso sono state fatte di recente: davvero siamo andati in Afghanistan per togliere il burqa alle donne? Oppure: perché alcuni in Europa sembrano scoprire la questione femminile soltanto dopo i fatti di Colonia, se non per sostenere un atteggiamento di chiusura verso l’immigrazione?”.

 


Susanna Camusso (foto LaPresse)


 

L’emancipazione, “valore non negoziabile”

 

Però oggi, gentile Camusso, ci sono donne del mondo islamico, da Hirsi Ali a Sara Khan, passando per Rita Panahi – tanto per citare quelle le cui voci abbiamo ospitato sul Foglio di recente – che temono un altro doppio standard: quello dei progressisti che, in nome della “sensibilità culturale”, chiudono uno o tutti e due gli occhi sui diritti delle donne all’interno delle comunità islamiche, impedendo indirettamente l’integrazione e favorendo processi di radicalizzazione. “Queste donne sollevano ‘il’ problema. Troppo a lungo, come si scopre con clamore dopo il caso di Molenbeek a Bruxelles, abbiamo fatto finta – rispetto ad altre comunità – di non vivere nello stesso territorio e nello stesso tempo. L’Italia ancora non ha ghetti nelle sue città, ma una tendenza pericolosa è in atto. Abbiamo dato per scontato che le regole per cui ancora ci battiamo ogni giorno, come progressisti e come sindacalisti, non dovessero valere in alcune parti delle nostre città”. Camusso ricorda il caso – discusso tempo fa con i “compagni” in Lombardia, prim’ancora dell’elezione a segretario generale avvenuta nel 2010 – di donne che si presentavano nei patronati della Cgil sparsi sul territorio soltanto se accompagnate da un uomo, marito o fratello, che parlasse al loro posto: “Ci interrogammo su come comportarci e ritenemmo che non avremmo più accettato di non poter ascoltare la voce della diretta interessata, fosse anche con l’aiuto di un mediatore culturale”. “Integrità del corpo, maggiore età che non dipende dal proprio sesso ma solo dalla data di nascita, libera scelta matrimoniale, istruzione, nesso tra cittadinanza e conoscenza della lingua del paese d’adozione. Queste sono alcune delle regole su cui, in Europa, dev’essere impossibile derogare. Soltanto così, alle donne islamiche, si possono garantire davvero interazioni soggettive con il resto della società, senza il filtro obbligato costituito da mariti, padri, parenti”. La parità di genere è un valore non negoziabile dell’occidente? “La libertà delle donne, come preferisco chiamarla io, lo è”.

 

Cosa pensa del velo Susanna Camusso? “Tutto ciò che obbliga a nascondere se stessi è negativo. E personalmente non vedo perché i capelli femminili debbano essere assimilati a una colpa. Si rischia di sedurre gli uomini? Beh, allora gli uomini imparino a contenersi. Detto ciò, nelle discussioni con le donne islamiche, pur libere e indipendenti, ci è stato risposto: il velo non è oppressione ma può diventare simbolo identitario, specie in realtà in cui ci si sente esclusi”. Vieterebbe il velo nelle scuole e negli uffici  pubblici? “C’è un limite da non oltrepassare: nella nostra società bisogna essere riconoscibili, perciò niente burqa, una vera e propria prigione, o niqab. Per il resto, sono contraria a imposizioni sui comportamenti degli individui”.

 

A questo punto il segretario generale della Cgil vuole ampliare il discorso, approfondire il legame tra emancipazione femminile e integrazione. “Ricordo con orrore, come se fosse oggi, le giustificazioni che alcuni membri della comunità pachistana locale avanzarono pubblicamente dopo l’uccisione di Hina Saleem (ventunenne pachistana uccisa dalla famiglia l’11 agosto 2006 a Zanano di Sarezzo, perché troppo ‘occidentalizzata’, ndr). E ricordo come di recente siamo andati a trovare una donna indiana, non di fede islamica, cui è stato dato fuoco a Brescia. Storicamente la libertà alle donne non è stata mai concessa dall’alto, ma conquistata. Detto ciò, alla luce di fatti di cronaca come questi, va realizzato che noi perlomeno non dobbiamo chiudere le finestre di queste comunità, ma aiutare chi da dentro tenta di aprirle. In questo senso la questione femminile, diventando questione di convivenza, smette di essere un tema specifico di un solo gruppo”. Un esempio positivo è quello dei posti di lavoro, “differenti dal territorio e in cui l’integrazione con gli immigrati, donne incluse, è andata più avanti. Resta il problema che troppo poche donne migranti arrivano a entrare in un posto di lavoro, fatto salvo forse per il settore agricolo”.

 

Dice il segretario generale della Cgil: “Non dobbiamo avere paura di rivendicare le nostre conquiste di libertà”. La sinistra finora ha avuto paura? I diritti per i progressisti sono passati in secondo piano, scavalcati dal totem multiculturalista che finisce per legittimare un doppio standard sulle libertà in base alla comunità religiosa o etnica di appartenenza? Camusso a questo punto fa una pausa. “La risposta è duplice. Da una parte, come italiani ed europei, fatichiamo a rivendicare alcune conquiste di libertà perché noi stessi non le abbiamo del tutto metabolizzate; il retropensiero che il corpo della donna debba essere controllato dall’esterno, per esempio, non è sconfitto nemmeno nel nostro paese. E questo discorso riguarda di più i conservatori. Dall’altra parte, e qui mi rivolgo ai progressisti, ci siamo fatti frenare dal fatto che tutto quello che potevamo dire di dirompente sul rapporto tra islam e donne avrebbe rischiato di essere strumentalizzato dai populisti, utilizzato magari per attaccare una comunità religiosa nel suo complesso o per bloccare l’immigrazione. Abbiamo taciuto troppe volte? Sì. Quando lo dico ce l’ho con la sinistra, e capisco quelle donne libere di fede islamica che adesso ci guardano con sospetto, sentendosi a volte perfino tradite. Con questo nostro atteggiamento abbiamo rallentato e ferito il processo d’integrazione che a parole dicevamo di volere sopra ogni cosa. Infatti, come ci si può integrare con chi non ha voce, come accade a volte a metà della popolazione immigrata?”.

 

Conclusione: “Il multiculturalismo non va preso alla leggera: io non imporrò mai a nessuno di mangiare italiano e tutti avranno la libertà di mangiare cibo etnico, certo, ma in questo paese ogni famiglia è obbligata a mandare i figli a scuola, anche le bambine. Nessuno si può rifiutare di lavorare in un ospedale solo perché i colleghi infermieri sono di sesso maschile. Anche il lavoro domestico deve essere riconosciuto e avere limiti temporali. L’integrità dei corpi non si vìola e tutti devono essere riconoscibili in società. Al di là dell’elenco, se la cultura di cui qualcuno è portatore è tale da ledere i princìpi fondamentali o costituzionali, allora occorre alzare una barriera”. Il problema non è sempre dell’Altro, su questo il segretario generale della Cgil insiste fino alla fine della nostra conversazione: “Siamo stati pigri, per usare un eufemismo, anche a sinistra. Finora è sempre stato più facile pensare che ciascuno vivesse qui in Italia e in Europa su uno stesso territorio ma con il proprio tempo, come in due mondi paralleli. Questo ci ha evitato domande scomode su noi stessi, sui nostri diritti, e sugli altri. Adesso, come dimostrano da ultimo e in maniera tragica gli attacchi terroristici di Bruxelles, pensare di vivere in due mondi paralleli diventa a maggior ragione impossibile. E se la donna libera aiuta a riformare l’islam, allora va aiutata con tutti i mezzi. E’ un interesse comune”.

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