Vi piacciono quei film con sottotitoli, cineclub e "dibbattito"? Finalmente hanno un nome

Mariarosa Mancuso
Basta aspettare, arriva una teoria su tutto. Per decenni (compiuti, non vogliamo neppure contare le ore e i giorni trascorsi nell’infelice condizione) abbiamo visto film che avremmo preferito non vedere, divisi dilettantescamente tra “innocui” e “fastidiosi”. Ora sapete come chiamarli.

Basta aspettare, arriva una teoria su tutto. Per decenni (compiuti, non vogliamo neppure contare le ore e i giorni trascorsi nell’infelice condizione) abbiamo visto film che avremmo preferito non vedere, divisi dilettantescamente tra “innocui” e “fastidiosi”. Nella prima categoria, certe sbrodolate che non avevano ragione di esistere, neanche come soldati semplici da sacrificare in battaglia (è la teoria dello scrittore albanese Ismail Kadaré sui brutti romanzi: aprono il terreno ai capolavori) e infatti venivano dimenticati appena riaccesa la luce in sala. Nella seconda, certe provocazioni – quasi mai originalissime – che irritavano fino a metter voglia di bombardare lo schermo.

 

Hanno un nome, adesso. Si chiamano “Feel-Bad Film”, teorizzati da Nikolaj Lübecker in un volume con lo stesso titolo appena pubblicato dalla Edimburgh University Press (200 pagine e ben 70 sterline l’edizione rilegata, non è uno scherzo). Il contrario di “Feel-Good Movie”, vale a dire il film da cui usciamo felici e contenti. O perché costruiscono un musicarello sulle canzoni degli Abba, o perché sciolgono alla fine il groviglio di emozioni, anche tremende e sgradevoli. Il passaggio da “movie” a “film” segnala che siamo entrati nel pericoloso campo della critica intrisa di filosofia: un “movie” si va a vedere di sabato sera, per chiamarsi “film” servono i sottotitoli, un cineclub, “il dibattito sì”. In programma, Lars von Trier o Michael Haneke, ma se siete nostalgici va bene anche Jean-Luc Godard. Tutti registi che fanno del loro meglio per mettere a disagio lo spettatore, negandogli una felice conclusione, o anche solo una conclusione quasiasi. Frustrazione e spiacevolezze, spunta perfino la definizione di “extreme cinema”, da affrontare con tempra e allenamento. Tra i campioni del genere finiscono “Caché” – “fa provare allo spettatore lo stesso disorientamento del protagonista”, e dire che quando abbiamo scritto “non si capisce nulla” eravamo timorosi di non avere capito nulla soltanto noi, tra un abbiocco e l’altro. “Dogville” – che un finale ce l’ha, anche grandioso – sconta la colpa di “tirar fuori il bastardo che è in noi”. Poi è troppo tardi ritirare la simpatia alla figlia del capitalista che stermina il villaggio dove l’hanno umiliata. Il nostro preferisce il bimbetto che è in noi, da risvegliare.

 

Noi poveri di spirito questi registi li eviteremmo (e quando possibile li evitiamo, tranne che poi coglie la curiosità “dove sarà capace di arrivare, uno che gira un film nella lingua dei segni ucraina?”, quindi ci ritroviamo a fare la fila). Il teorico dei “Feel-Bad Film” – non è l’unico, curiosando tra le accademie ne spuntano parecchi – spiega invece che vedere i loro film è un atto rivoluzionario. Il primo passo di una silenziosa resistenza contro il capitalismo. Che infatti trema, quando Giuseppe Tornatore esce in sala con un nuovo film.

 

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