L'Ecstasy, i riti di passaggio e i sacrifici umani su cui si distende la greve banalità dell'estate

Alessandro Giuli
Chi non ha bisogno di questo sabba metropolitano nemmeno lo incontra; chi ci cade dentro ha nel destino una funzione espiatoria: sfamare un grande dèmone gonfiato a dismisura dalla tecnologia dei moderni, l’opera alchemica nell’epoca della sua perversa riproducibilità seriale.

Non penso d’essere la persona più adatta a scrivere di droga, ma di sacrifici umani me ne intendo. E questa che scorre sembra appunto l’estate delle discoteche fatali, delle metanfetamine fulminanti che lasciano stecchiti giovani e meno giovani candidati alla morte acerba. Morte da sballo, dicono in modo retrò gli analogici memorialisti di stagioni perdute, quelle dell’avvento lisergico che illuse e poi sterminò gli ultimi conati immateriali di fine Sessanta (secolo scorso), un esperimento destinato ad altri approdi, nelle premesse, ma annegato nel sincretismo new age, nella contestazione politica, nel grande riflusso di tanti piccoli proto Lebowsky. Mondi lontanissimi, sopravvissuti per lo più nel sottofondo musicale autobiografico degli ultimi baby boomers.

 

Oggi è completamente un’altra storia, e la storia come si sa procede per parodie e sgretolamenti. Avrei voluto premettere l’ovvio, e un po’ me lo concedo comunque: la sopraggiunta fobia per le discoteche – già desuete fin nel nome che rinvia a raccolte di vinile – è di sicuro un fenomeno mediatico-stagionale, caratteristico delle civiltà consacrate al vuoto che si fa stridore di massa. I numeri dicono che dal 1999 al 2013 i decessi per intossicazione acuta da droghe in Italia sono calati da 1.002 a 344. E in Italia va perfino meglio rispetto agli altri paesi europei (Relazione annuale 2014 della Polizia di Stato), si muore ancora troppo per la mai troppo vecchia eroina e per la combinazione di droghe e alcol, ma si muore sempre meno. E allora di che parliamo? Ammettiamo che il discorso non si possa chiudere così, alla svelta, rubricando la così detta “emergenza Ecstasy” come la prosecuzione dell’emergenza “cani-che-mordono-bambini” delle scorse estati, e via strillando. Parliamo dei vivi, più che dei morti statistici e dei loro inconsolabili parenti, che se ne fottono delle statistiche perché ogni ragazzo morto è un cielo che si ottenebra.

 

Potrei sintetizzare così: signora mia, non ci sono più le droghe di una volta, ma forse dovrei dire i drogati di una volta. Ma insomma questa faccenda, questa crociata estiva e proibizionista contro l’annichilimento da pasticca (consumata dove? Decidete voi: disco, rave, festicciola da “rimastini”…) è forse un’occasione per immergersi sotto il pelo dell’acqua in cui nuota la maggior parte degli adolescenti, e scoprire che l’acqua è corrosiva: canne a parte (ci torno dopo), dieci euro per una luna piena in miniatura disciolta nel beverone alcolico da condividere con la propria fratrìa, la sensazione di svaporare nella fissità inerme del minerale, la fantasmagoria ritmata da un dionisismo oscuro, capovolto, che non libera ma precipita. Chi non ne ha bisogno, questo mostro, questo sabba metropolitano (lo è anche in campagna o sulla spiaggia) nemmeno lo incontra; chi ci cade dentro ha nel destino una funzione espiatoria: sfamare un grande dèmone gonfiato a dismisura dalla tecnologia dei moderni, l’opera alchemica nell’epoca della sua perversa riproducibilità seriale. Perché in fondo di alchimia sto parlando: quella che i bramini vedici praticavano a proprio rischio ingollando il soma, bevanda d’immortalità a base di amanita muscaria, per accedere a stati superiore dell’essere e guidare poi la turba dei profani, ai quali il soma veniva semmai somministrato in quantità diluita nel piscio di vacca.

 

Aristocrazia psicotropa, perciò, come nell’azzardo più recente di Ernst Jünger alle prese con l’LSD, o come l’etere sniffato da Julius Evola, che quando veniva accusato d’essere un mago nero si difendeva così: le parole magia nera e magia bianca, tutt’al più, mi fanno pensare alla nota marca di una bevanda a base d’acqua corrosiva (Black&White Whisky).

 

[**Video_box_2**]Perché anche di magia sto parlando, quando penso che aveva ragione Aldous Huxley a chiamare “soma” l’elisir stordente che annaffia un “Mondo nuovo” in cui l’umanità ha barattato la propria vita con una larva di felicità. E forse è qui il segreto: proibire è necessario, ma è anche più facile che convincere o, figurarsi, educare. Ma poi chi dovrebbe farlo? La sinistra libertina (secondo l’etimo autentico: figlia di schiavi liberati) ha combattuto i residui novecenteschi dello Stato etico per rimpiazzarlo con una grande madre pedagogia, se possibile più astratta e giacobina. La destra liberale e conservatrice (che almeno in Italia è come dire una sinistra avariata, sclerotizzata dal fanatismo del particulare) si pavoneggia nella demonizzazione della res publica, ma poi reclama il diritto di vietare per decreto. E intanto tutto viene digerito e assimilato, non escluse queste righe, nella mega macchina della banalità più greve: allarme, anzi no, esagerazione mediatico-estiva; vietato vietare, anzi no, vietare per non porsi un problema in più… E il discernimento, che non è soltanto chiedersi se la cannabis sì-o-no (certo che sì, a ’sto punto)? La domanda fondamentale sul perché? E cioè da dove nasce l’esigenza imperitura, fintantoché ci sarà ancora un solo bipede umano in circolazione, di quei riti di passaggio – Marte, Venere e Dioniso – che se negletti degradano in violenza, stupro ed ebbrezze oscure. Sacrificare la sofferenza è un atto interiore terribilmente difficile, più facile è sacrificare chi muore ogni giorno anche restando in vita.

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