A Locarno i giovani registi si sono dimenticati le parole

Mariarosa Mancuso
Sono le lente scene di un film che entusiasmano le giurie. Solo quelle, va detto e ripetuto. Esiste un circuito chiuso di nomi che vanno in pellegrinaggio da un festival all’altro, recensiti benevolmente da oscure rivistine (quando c’erano) e ora da oscuri blogger, la malapianta difficilmente si estirpa.

Parole niente, devono averci messo una tassa sopra. I giovani registi in concorso a Locarno non se la possono permettere. Hanno già speso i soldi della paghetta per frequentare le più rigorose scuole di cinema. Hanno dilapidato i soldi ricevuti in nome dell’arte per trovare attori capaci attraversare con indifferenza - senza muovere un muscolo, sullo sfondo di desolati paesaggi - le lente scene di un film che entusiasmi le giurie. Solo quelle, va detto e ripetuto. Esiste un circuito chiuso di nomi che vanno in pellegrinaggio da un festival all’altro, recensiti benevolmente da oscure rivistine (quando c’erano) e ora da oscuri blogger, la malapianta difficilmente si estirpa.

 

Entra nel circuito lo srilankese Vimukhti Jayasundara, con “Sulanga gini aran” (la traduzione proposta dal catalogo ufficiale, passando attraverso l’inglese, suona come “Buio nella luce bianca”). Ha imparato la lezione dal tailandese Apichatpong Weerasetakul: un monaco buddista, storie tra vita e morte, dottori che il giorno curano e la notte stuprano. Più un trafficante d’organi: l’unico che parla almeno un pochino – spiegando che il buon Dio ci ha dato quasi tutti gli organi pari, atti dunque al trapianto - e finisce per risultare simpatico. Bakur Bakuradze, nato a Tblisi nel 1969, già del circuito fa parte: “Brat Dejan” racconta dieci anni di clandestinità di un ex generale serbo, nelle caserme e in montagna, a casa di un contadino ancor più taciturno di lui (scambiano qualche parola solo per concordare le circostanze del loro finto incontro).

 

Da segnarsi un solo titolo in concorso: “James White” – è il nome del protagonista – diretto da Josh Mond. Non solo parlavano. Era scritto e recitato benissimo, nella sua tristezza: racconta una madre che muore di cancro e un figlio che la accudisce (l’attore si chiama Chistopher Abbott, come Adam Driver era nella serie tv “Girls”). Ambientato a New York - manco a dirlo - dove il giovanotto fatica a trovare la sua strada. Si aprirebbe qui un discorso sulla superiorità dei registi americani, che anche quando raccontano i fatti propri – il film potrebbe essere autobiografico – evitano i toni e la svenevolezza da gruppo di supporto. E lo stesso vale quando vediamo giovanotti che dormono sul divano della mamma e si sballano in discoteca.

 

Scelgono la via del silenzio anche Martina Parenti e Massimo D’Anolfi, nel documentario “L’infinita fabbrica del Duomo” (sezione “Signs of Life”, che ahinoi indaga le “nuove forme narrative” a uso di chi non conosce né domina le vecchie). Solo qualche rara didascalia, sui marmi di Candoglia che arrivavano a Milano per le vie d’acqua, sulla colletta fatta per la costruzione (i poveri davano poco ma con costanza, i ricchi a capriccio, salvo poi farsi vedere con la cazzuola in mano a scopo pubblicità), sull’incoronazione di Napoleone. Su come vengono ripuliti i lumini, quando cala la sera e la cattedrale va pazientemente chiusa, spegnendo tutte le luci e controllando che nessuno sia rimasto nei confessionali.  

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