Quella di Emily è un merletto
Brighton Beach, il quartiere russo di Brooklyn. Mi trovo qui per incontrare un giovane falsario originario di NiÏnij Novgorod, uno di quelli di ultima generazione che firmano i propri falsi. E’ un ex dj specializzato nel copiare le odalische di Matisse. Bravissimo, ma il gusto dell’imbroglio? L’appuntamento è sotto i binari della sopraelevata; è per la rinuncia all’avventura che il falsario ha un fungo in faccia e la bronchite? Ci sediamo in un ristorante sulla spiaggia con i bagni completamente neri, di basalto e diaspro. Gli chiedo se abbia mai copiato quadri di pittrici, mi guarda con attenzione, poi scavando nella memoria dice: “Just once”. Comincia a tossire come un disperato. Veloce succhio l’ultima chela del granchio, mi alzo e gli propongo di andare alla Blue House che sta qui accanto. La Blue House è un covo di filantropiche settantenni incazzatissime. Sono in riunione e ci pregano di attendere; insofferente, il falsario comincia a sudare e a muovere il tallone con insistenza, su giù su giù, accusa reflusso ed emicrania, si precipita in strada e sale sul primo taxi. Le vecchie ragazze mi scrutano; una di loro, una rossa, sbatte sulle mie ginocchia una brossura in tre volumi: “How to Learn to Say ‘No’”. “Sei qui per diventare socia?”, mi chiede. “No, ascolto”. “E che mestiere fai?”, insiste. “Mh, l’artista”. “Ne conosco di artiste! Hanno sempre le mutande giù, le artiste”, autorevolmente interviene un’altra del gruppo.
E’ vero, le artiste hanno sempre le mutande calate, ma non per sedurre: per attaccare. Nella performance Genital Panic l’artista austriaca Valie Export passeggia per Monaco acconciata come Pierino Porcospino; si presenta in un cinema vestita di una tuta ritagliata all’altezza del pube, e avvicina la propria peluria ai volti degli spettatori. In Himenoplastia la performer guatemalteca Regina Josè Galindo va oltre: il suo imene sprizza sangue sotto un nugolo di formicanti mani chirurgiche che tagliuzzano e cuciono dentro e fuori dalle grandi labbra; un imene immolato in nome di tante donne violentate. In tutto questo can can di vergini sverginate, un gruppo di artiste fa woman power senza mostrare un centimetro del proprio corpo. Sono le Guerrilla Girls, trasformano l’Art History in Art Herstory e si vestono da oranghi. Nessuno conosce la loro identità, si presentano all’inaugurazione del Whitney Museum e al Gala del Metropolitan in pelosi costumi. Valie, Regina, le Guerrilla, grandi artiste o…?
Questi nomi ormai museali hanno aperto la strada a tutte le giovani performer che producono opere al fine di sviscerare, castrare e riabbottonare il famigerato male gaze. L’ultima generazione è barbie, cheeky e fa spallucce. Perfetta incarnazione del nuovo prototipo di performer, tutta social network e fotocamera, ecco Amalia Ulman: pancino da neonata, slip bianchi e il seno che esplode sotto il top da yoga. Amalia è ricca e profumata, si nutre di frutti di bosco, macarons e boccioli di rosa, scatta tanti selfie, sfocati, macchiati dal flash, poco importa, lei alza i glutei di porcellana davanti agli specchi di bagni color caramello, indossa il cerchietto, stringe qualche garza medica su un lembo di pelle delicata, schiude le labbra carnose e fa click. Amalia pubblica tutte le foto che una donna insicura di sé, ma narcisista al fondo, terrebbe nascoste nell’ultimo folder del proprio computer. Sa che sporgendo le labbra, dilatando le pupille, stringendo stretto un cuscino di piuma anche il capello più disordinato, l’occhiaia più nera, anche un ebraico ricciolo a payot, diventa sexy. Il selfie parla chiaro, lei è la sottomessa e lo spettatore, nella fantasia, può farle quello che vuole. Amalia renderà il desiderio più porno, lo schiaffo più sadico, belli, delicati, fatati, li farà leccare da tanti micini bianchi. Possiamo immaginare Amalia nella posizione del loto mentre sorride a un suo perverso ammiratore come stesse contemplando un cono alla vaniglia e cocco, dolce e lontano. Questo il personaggio che l’artista Amalia Ulman, classe 1989, ha inscenato per quattro mesi nel 2014 su Instagram e Facebook, pubblicando centinaia di selfie. Con più di 73.000 follower solo su Instagram, Amalia ha giocato con il rapporto tra realtà e finzione facendo sbarellare migliaia di uomini oltre che confondendo chi il mondo dell’arte pensava di conoscerlo bene. I filler al botulino di Amalia, veri. La plastica al naso, vera. Il seno rifatto, palpabile o Photoshop? E Amalia, grande artista o…?
Sono a pranzo con Cheng, una cinese di novantadue anni residente a Brooklyn, accumulatrice di reliquie d’arte femminista. Prima di conoscerla non potevo immaginare che, grazie all’opera dell’artista Judy Chicago, la vagina di Isabella d’Este avesse tre navate e che quella di Saffo fosse un fiordaliso. Ci fa compagnia Rebecca detta Becca, ex pittrice ora dedita alla tessitura di arazzi e tappeti che riproducono dipinti di altre pittrici. “Quegli stronzi non mi avranno. Ho fatto la fame per quindici, quindici anni Sofia. Sai perché? Sì che lo sai”. No, non lo so, ma i miei timpani vibrano per l’urlo di Becca: “Perché ho una vagina!”. “Ah cavoli, mi dispiace”, esclamo stordita. “D’ora in poi mi limiterò a tessere”, sospira Becca. Succhia dal cucchiaio lunghi sorsi di Matzah, la zuppa di carne, uova, grasso di pollo e margarina che le preparava la nonna aschenazita. Filtra il brodo attraverso la fessura fra gli incisivi per fare più rumore. Qualche pezzo di margarina rappresa le si ferma agli angoli della bocca e ricade nel piatto. Addento un pastrami sandwich e mi schizzo la maionese sulle mani. Cheng osserva. Ghigna e alza il dito medio nella mia direzione, calloso e tagliuzzato culmina in una mezzaluna nera.
La casa di Cheng è un teatro anatomico, un cassonetto della spazzatura di Pizza Hut, è lo spogliatoio di un hammam gay, ma anche un reliquiario per sante nemiche del sapone. Cinque scalini portano al piano seminterrato dove il mio occhio cade su una teca che contiene piccoli ciuffi di peli pubici. “Sono pegni d’amore, un tempo Cheng era molto bella”, mi spiega Becca. Sulle pareti riproduzioni dei piatti di Judy Chicago. La più femminista tra le artiste americane lavorò per anni insieme a decine di volontarie all’opera “The Dinner Party”. Il lavoro consiste di un’immensa tavola triangolare, cava al centro, allestita per ospitare un banchetto. Ogni posto a sedere è corredato da tovaglia, piatto, posate dedicati a una grande dea o donna della storia dell’umanità. Di questi piatti Cheng colleziona lussuriose riproduzioni, gli originali stanno al Brooklyn Museum. Ogni piatto ricalca la forma di una vagina. Scopro così che l’Imperatrice Teodora ce l’ha mosaicata, Eleonora d’Aquitania trilobata, che quella della Woolf è una pannocchia di granoturco. La vagina di Emily Dickinson è tutto un fiorire di merletti, piccole e grandi labbra sembrano lavorate a uncinetto e si schiudono alla maniera in cui i maestosi colletti ottocenteschi incorniciavano il viso delle nipoti dei pionieri. Quando la vagina è ritratta da un uomo – il close-up di Courbet, le grandi labbra frastagliate disegnate da Picasso – si ha l’impressione di osservare un organo effettivamente appartenuto a qualche signorina prima di finire su carta o tela; le vagine disegnate dalle donne artiste sono invece immensi imbuti psichedelici, s’illuminano al buio, pelose fosse delle Marianne in acrilico, vetroresina e chewingum. Fantastica Judy Chicago! Grande artista o…? Saluto Cheng e Becca, ho un appuntamento a Roosevelt Island. Con aria truce il tassista ascolta musica classica mentre percorriamo il Queensboro Bridge deserto. Mi scarica davanti a un liquor bar ai piedi del ponte. Sono qui per incontrare Emma Sulkowicz.
Emma Sulkowicz, la più famosa performer del momento. Emma Sulkowicz, colei che sconvolse la Ivy League. Emma Sulkowicz, la bella con il codino da samurai. Emma Sulkowicz, classe 1992, figlia dei più potenti psichiatri di Manhattan, studentessa d’arte alla Columbia University. Nell’aprile 2013 Emma accusa un compagno di corso di averla stuprata otto mesi prima, in una stanza del college. L’incontro sessuale sarebbe avvenuto prima consensualmente per poi degenerare in violenza e coercizione. L’accusato nega, l’università lo proscioglie, reputandolo “non responsabile” dell’accaduto. Il New York Post comincia a interessarsi al caso. Agosto 2014, gli occhi dell’art world sono puntati su Emma; la giovane studentessa dà vita alla sua prima performance, “Mattress Performance (Carry That Weight)”. Per le classi, i giardini, i corridoi, le mense della Columbia, Emma trascina sulle spalle un materasso, lettera scarlatta e croce dello stupro. “Non farò più un passo all’interno del college senza portarmi dietro questo materasso, non lo farò finché il mio stupratore non verrà espulso o lascerà la Columbia” – questa la promessa di Emma. Per mesi e mesi, il materasso è trascinato senza sosta. Il ragazzo accusato di stupro diviene nel frattempo vittima di feroce odio e ostracismo, sporge denuncia all’università, al presidente Lee Bollinger, al relatore di tesi di Emma, l’artista Jon Kessler: Emma sta scrivendo una tesi sul proprio stupro. Il 19 maggio 2015 Emma Sulkowicz e il suo presunto stupratore ricevono il diploma di laurea davanti al pubblico plaudente, uno di fianco all’altro. Alcune studentesse aiutano Emma a trasportare il materasso sin sopra il palco dove vengono consegnati i diplomi, il direttore Bollinger non stringe la mano a lei, unica tra tutti gli studenti, accusando il materasso d’ingombrare il passaggio.
Il nome di Emma, ventitré anni, una sola opera, è paragonato a quello dei più grandi performer del mondo. Immancabile l’incontro con Marina Abramoviç. “She’s a hoot”, lei è uno spasso – dirà la studentessa a proposito della famosa artista. Più che uno spasso, Emma ha incontrato Grimilde la strega. E’ una mela avvelenata quella che Grimilde offre a Emma: i famosi contatti. In particolare quello del regista Ted Lawson, un bostoniano trasferitosi a Brooklyn, artista che usa tecnologie digitali per plasmare le sue sculture: una donna distesa su poligoni caramellosi intitolata “Morte della narrativa”, un tronco mezzo liquefatto intitolato “Scetticismo radicale”. Brrrr! Con l’aiuto di Ted, Emma combina il patatrac, la sua seconda opera, il video “Ceci N’est Pas Un Viol”, sulla scia del famoso aforisma di Magritte. La stanza di uno studentato, quattro telecamere di sorveglianza, Emma entra accompagnata da un uomo arrossato, tozzo, pieno di cellulite e con il pene eretto. Lui la bacia, Emma lo tocca, lo stende sul letto, inizio di fellatio, lei sopra lui sotto, lui sopra lei sotto, poi lui tira una sberla sulla faccia di lei, un’altra sberla, lei mugugna, penetrazione anale. Emma dice no, “stop, stop” supplica, si copre la faccia con le mani, lui continua, poi si stufa, esce nudo dalla stanza, lei fa il letto, si fa la doccia e s’addormenta in posizione fetale. Il video che Emma propone sul sito cecinestpasunviol.com è corredato da uno strano testo. Un estratto: “Non guardare questo video se le tue motivazioni per guardarlo potrebbero offendermi, se i miei desideri ti sono poco chiari, se pensi che le mie sfumature siano indecifrabili. Ti starai chiedendo perché mi sono resa così vulnerabile. Guarda – io voglio cambiare il mondo, e questo ha inizio da te. Se guardi il video senza il mio consenso, sei tu che non hai resistito a fare di Ceci N’est Pas Un Viol proprio quello che volevi farne: uno stupro. Per piacere non partecipare al mio stupro. Guarda il video con benevolenza”.
Emma e il suo materasso hanno avuto una madrina d’eccezione, l’artista cubana Ana Mendieta. 1973, Ana e una ragazza dal naso simile a quello di Doris Day, Sarah Ann Ottens, frequentano l’Università dell’Iowa. Sarah vive in un college chiamato Rienow Hall. Nella stanza 429 del Rienow Hall Sarah è stuprata e uccisa. S’indica come colpevole un compagno di studi, l’afroamericano James Wendall Hall. A James vengono inflitti cinquant’anni di carcere. Dopo sette anni dall’omicidio comincia a circolare una voce, quella che i giudici si fossero presi una sonora sbronza alla mensa dell’università prima del verdetto. Per questa e altre ragioni il caso è riaperto: James Wendall Hall viene rilasciato. Nel frattempo Ana è diventata Ana Mendieta, ispirata dall’omicidio di Sarah. Poco tempo dopo il tragico ritrovamento del corpo della ragazza, Ana mette in scena “Untitled (Rape scene)” dove, imbrattata di sangue e riversa su un tavolo, mima il corpo morto della compagna. Cimentandosi in altre due performance, Ana spande sangue in luoghi pubblici e vi si rotola sopra, inzacchera di appiccicoso sangue anche cumuli di materassi in rimesse abbandonate. Sangue, sangue che scorre dalla vagina, sangue sulle palpebre, coaguli di sangue tra i capelli. La stuprata: Ana ne ha recitato la parte per anni e anni, Emma lo è stata, sostiene, e ancora si costringe ad esserlo. Emma, Emma Sulkowicz, Ana Mendieta, grandi artiste o…?
Comunque sia, Emma non è venuta all’appuntamento. Esco dal bar che è già l’imbrunire. Passeggio lungo il percorso pedonale del Queensboro Bridge, due traghetti s’incrociano lungo l’East River. Più violente del vento, le masse d’aria scosse dalla velocità dei ciclisti scuotono la ringhiera di parapetto. Dieci, venti, cento uomini mi sorpassano correndo verso Manhattan; sui gps allacciati al polso controllano con rapide occhiate la distanza e il tempo. Scende la sera, s’accendono i primi fari, i primi lampioni. Migliaia di performer si allenano negli scantinati di New York.
La prima puntata di questo viaggio nell’arte contemporanea firmato da Sofia Silva, “Nella testa di Marcus Harvey”, è uscita l’11 giugno scorso