Olivia compare spesso nelle sue fotografie. Qui è (auto)ritratta in “Lovers”, 2013, dalla serie “Kids in Love” (foto Olivia Bee, per gentile concessione dell’autrice)

Gente di New York

Il magico mondo di Olivia Bee

La fotografa americana è una giovane vestale della bellezza, nelle sue fotografie (acclamatissime) cerca di togliere tutto: per trovare l’io bisogna eliminare “ogni elemento di disturbo”. Ha iniziato a fare foto a otto anni, a quindici ha fatto una campagna per la Converse. Usa più l’analogico del digitale.

Olivia Bee non ama chi la fa tanto lunga su quant’è giovane. Vorrebbe essere considerata soltanto per le fotografie che fa, per l’arte che produce, non per lo sbalordimento che trasmette il contrasto fra il successo e gli anni che ha. E’ una specie di prigioniera non troppo sofferente del complesso dell’enfant prodige o del wunderkind, come lo chiamano gli americani abbracciando la lezione sassone, e il problema è che si finisce per forza lì, al “ma sei così giovane”, che spesso si trascina un retropensiero ovvio che trasuda invidia: devi essere la figlia di qualcuno.

 

Olivia ha sviluppato gli anticorpi per sconfiggere questa malizia adulta quando i suoi coetanei erano in un parco a farsi le prime canne. L’ho incontrata quando aveva ancora vent’anni e poca voglia di organizzare una festa per il compleanno più importante della giovinezza americana, quello che segna l’età in cui puoi smettere di entrare nei club con una carta d’identità falsa. “Ne ho fatta una da paura l’anno scorso, non credo che la rifarò quest’anno. Forse qualcosa di più tranquillo con gli amici”. Dopo uno scambio di messaggi densi di punti esclamativi ed emoji, mi dà appuntamento in un caffè di Williamsburg, a Brooklyn – dove sennò? – in un pomeriggio sonnacchioso di commissioni, shopping e una capatina dall’analista. E’ minuta, ha un giubbottino rosa evidenziatore, l’iconico anello alla narice, orecchini enormi dorati sotto i capelli raccolti, all star sdrucite e un sacchetto blu dell’Ikea che stilisticamente la colloca a un paio di galassie di distanza dal guardaroba glamour che indossa in molte foto. Una teorica della bellezza dell’“everyday life” se lo può pure permettere.

 

E’ appena tornata in città da un viaggio di lavoro così lungo che ci vuole uno sforzo di memoria per ripercorrere tutte le tappe. Di sicuro è stata a Parigi, a Los Angeles, in qualche posto in mezzo alla natura, poi a Austin per il “South by” (modo amichevole per chiamare il festival South by Southwest, segno che è di casa da quelle parti) poi nell’Oregon, a trovare i suoi genitori. Come molti artisti di Brooklyn, anche lei è di Portland. Della west coast ha il colore della pelle, l’aria soleggiata e poco urbana, la voce un po’ nasale. E’ il genere di persona che saluta con un abbraccio anche quelli che non conosce, senza il distacco disilluso ed europeizzante della gente del nord-est. Ordina un chai latte, già di per sé una dichiarazione d’intenti, e dà l’impressione che sia facile essere una delle fotografe più richieste del mondo, quella che tutti i brand vorrebbero per aggiornare il loro immaginario. Del resto, è così giovane che per lei l’estetica degli anni Zero è già vintage.

 

Ha iniziato a fare fotografie quando aveva tipo otto anni. A dodici sviluppava pellicole nella camera oscura e le metteva su Flickr. A quindici ha fatto una campagna per la Converse. Poi sono venuti tutti gli altri: Levi’s, L’Oréal, Apple, Nike, Subaru, la lista tende all’infinito. “Ho fatto foto per la Fiat quando ancora non avevo la patente, anzi ho imparato a guidare su una Fiat”, racconta. Il suo primo agente è stato il padre del suo ragazzo al liceo. A ventun anni non ancora compiuti fa interviste con l’accorta naturalezza di chi conosce il mestiere. “Ogni tanto mi chiedo dove sono finiti tutti quelli della mia età, e mi dico: ‘Ah già, che stupida, sono tutti al college’. Iniziare così presto a lavorare rende tutto complicato dal punto di vista dei rapporti, non riesci a legare con quelli della tua età, perché non ci sono, e la gente con cui lavori è più vecchia di te. Ma non mi lamento, quando avevo sedici anni era più difficile”. E’ più breve elencare le riviste che non hanno mai pubblicato sue foto. E’ cresciuta in fretta la sua identità artistica, sono arrivate le mostre personali, il brulicare della vita dei galleristi fra New York e Parigi, a portare le sue immagini oniriche e sgranate, con luci calde come in certe scene di Terrence Malick, la patina anni Settanta e le inquadrature imperfette di chi insegue il mito di una generazione, o forse il mito di tutte le generazioni: l’autenticità. Talento, dice quello, ma a lei la storia della dote innata non piace neanche un po’ (considerazione en passant: forse non piace a nessuno della sua generazione narcisa e centripeta perché l’innato è anche immeritato, e l’immeritato non gratifica l’ego, non ci si può vantare troppo di un dono ricevuto, di una sudata conquista sì). Una volta un amico le ha detto: “Mi hai insegnato cos’è il talento, e non è una cosa genetica. Il talento non importa, perché è un’illusione. Non è qualcosa con cui nasci, è un impulso. E’ il bisogno di migliorare perché ami qualcosa”.

 

In questo matrimonio dell’amore e della volontà, celebrato dal duro lavoro, Olivia crede fortissimamente. Per questo si è trasferita a New York, città che è la negazione di uno spirito che naturalmente tende ai campeggi, alla casa dei nonni in montagna e ai marshmellow caramellati al fuoco, mitologia commerciale della wilderness: “Il mio posto preferito credo sia ‘da qualche parte in mezzo al nulla’, che vuol dire un posto imprecisato e aperto che potrebbe essere in Arizona, in Nevada o in California”, dice. Ma le cose, se così si può dire, succedono a New York, e la ragazza si difende anche con le piume di struzzo in una galleria di Chelsea, è l’opposto della sociopatia artistica, della ricerca di sé negli spazi aperti e primordiali, è anche una femme fatale che lascia trasparire le sue giovani forme dagli abiti da diva d’altri tempi. Sul comodino ha una copia di “Lolita” ancora intonsa, scelta letteraria appropriata, ma che in qualche strano modo non stona con le sue letture recenti: Miranda July, Adelle Waldman, Patti Smith. “Mi sono trasferita a New York quando ero in un momento strano della mia vita, avevo una relazione instabile con il mio ragazzo del liceo. E’ stato allora che è finita. L’ho fatto così, impulsivamente, mi dicevo, ‘sai che c’è, la prossima volta che mi sento sola mi trasferisco a New York’. Mi ci è voluto un sacco di tempo per abituarmi. Per molto tempo New York è stata una fonte d’ansia per me, perché ci sono un sacco di cose che avrei dovuto fare e che non facevo e soltanto di recente sono riuscita a dirmi finalmente ‘ok, sei dove devi essere’. La mia sensibilità e le mie radici sono nella west coast, ma mi piace New York. Lo devo ripetere parecchie volte per convincermi, ma a questo punto è davvero così. C’è così tanta arte qui, è pazzesco, se ti piacciono quel genere di cose. E se sono dell’umore giusto è un posto incredibile, ma se non lo sono dico ‘fuck this place’, è il posto peggiore della storia. Poi l’inverno è una merda. Tutti i ricordi belli che ho di questa città iniziano con ‘quella volta in spiaggia’ o ‘a quella festa sul tetto’, tutto succede d’estate”.

 

Torniamo per un attimo all’autenticità. Olivia è alla ricerca di un istante vero, senza patine di finzione, eppure la maggior parte delle sue foto sono composizioni create ad arte, studiate nei dettagli, frammenti di situazioni irreali e talvolta inverosimili. “Quando qualcosa è finto lo riconosci. Cerco cose vere e non soltanto che sembrino vere. Tento di creare un contesto di fantasia dentro al quale possono succedere cose vere. Prendi, che so, una foto di due persone che si baciano sott’acqua: non ci sono molte probabilità che possa averle fotografate per caso, anche perché ci sono anche io in quella foto, ma non significa che quello scatto non esprima qualcosa di vero. Lavoro in diversi modi, uno dei quali consiste nel fotografare quel che succede. Un altro è creare universi paralleli, fantasie che permettono a qualcosa di spontaneo e genuino di succedere. Uno dei segreti è lavorare con persone con con cui hai una certa familiarità e portarle in posti dove possono essere loro stesse”.

 

Nel mondo di Olivia per trovare il proprio io bisogna togliere, non aggiungere. Togliere strati di convenzioni e abitudini, di doveri sociali, di formalità perfettamente codificate. La natura è centrale, ma non nel senso dell’ambiente, l’environment con tutte le sue propaggini ideologiche. Ha più a che fare con “l’eliminazione degli elementi di disturbo”. I corpi nudi, giovani benché non sempre perfetti né ossessivamente levigati (ma difficilmente si troveranno inquadrature strette sulla cellulite) sono un’altra fase dello stesso processo: “Voglio togliere il più possibile le distrazioni, quello è il motivo per cui m’interessano i corpi nudi. Al momento sono ossessionata dall’idea di togliere l’ingombro delle cose dall’obiettivo”. Salvo rare eccezioni, gli elementi tecnologici sono volutamente tenuti fuori dall’inquadratura, ché l’eccesso di contesto e precisione toglie il mistero senza tempo che cerca di fissare sulla pellicola: “Anche i miei lavori di moda sono generalmente timeless. Certo devo mettere i prodotti dei clienti, chiaro, ma per il resto cerco di andare all’essenziale, anche con i vestiti: ci sono jeans, magliette, vestiti svolazzanti che potrebbero essere di cinquant’anni fa oppure di oggi, oppure niente, soggetti nudi”. C’è anche un secondo motivo per l’assenza di tecnologia: “Il cuore delle mie foto è sempre un rapporto umano, c’è sempre una comunicazione diretta fra uomini, o fra gli uomini e la natura”. Strano: quasi tutti i device che sempre occhieggiano in qualunque contesto contemporaneo dovrebbero favorire la comunicazione, non ostacolarla. Anzi, la ragion d’essere dichiarata di smartphone et similia è distruggere il muro dell’incomunicabilità, mettere fuori gioco il silenzio e l’oblio. Le fotografie di Olivia invece sono piene di silenzio.

 

“Kids in Love”, ad esempio, è un racconto adolescente fatto di sguardi innamorati, bagni nei laghi, fughe notturne dalla finestra, fai piano che ci sentono, di viaggi in macchina senza meta, due tiri a basket e chitarre scordate che mormorano note intorno a un fuoco. Ma non c’è rumore, non c’è ansia, non ci sono gruppi di whatsapp, non c’è fretta di diventare grandi né fear of missing out, il morbo dei millennial. “Abbiamo tutti la sindrome da deficit di attenzione, dev’essere una cosa generazionale, non riusciamo a leggere, a concentrarci, a stare attenti a qualcosa”. Il paradosso è che negli scatti c’è quell’aria sognante e sospesa che mette voglia di dire “fermiamoci qui ancora un po’”, ma lei ha come l’argento vivo addosso, lavora a ritmi impressionanti (“è la cosa che preferisco al mondo”), ha il terrore di perdere tempo, vola da un continente all’altro, cerca sempre un nuovo soggetto, un nuovo linguaggio, con tale foga che qualche giorno fa, me lo racconta ridendo, di fronte all’ennesima mail in cui elencava le cose che avrebbe dovuto fare e non ha fatto uno dei suoi agenti le ha detto di darsi una calmata. “Mi fa: hai vent’anni, stai tranquilla, e in effetti ha ragione. Il problema è che io vorrei rallentare, ma non ci riesco, sento che perderei qualcosa”. Usa molto più l’analogico del digitale principalmente per ragioni di risultato sulla pellicola, ma in parte anche perché lo schermo della macchina digitale è una condanna al giudizio istantaneo su se stessi che può scatenare una pressione enorme (quello di Olivia è un tribunale particolarmente severo) mentre con l’analogico si scatta senza pensieri, le somme si tirano nella camera oscura. In più, la pellicola è una “cosa”, faccenda non secondaria nel regno immateriale del cloud e del drive: “Mi piace la pellicola perché è un oggetto fisico. Penso spesso ultimamente alla differenza fra un portale e un oggetto. Per me la pellicola è come una cartolina, e il digitale come l’esperienza in  presa diretta, una via d’accesso che ti introduce a qualcosa. Ma è qualcosa di irreale, galleggia nell’etere, non è una ‘cosa’, mentre noi abbiamo bisogno di cose fisiche che sono come una traccia tangibile dell’esperienza vissuta”.

 

Si definisce una “beautyholic”, una piccola vestale devota alla bellezza, suo padre glielo diceva sempre che ne era ossessionata, quand’era una bambina la chiamava “secret beauty”, “non è adorabile?”. Riesce a trovare la bellezza in qualunque cosa, dice, ma “la bellezza è strana, la riconosci ma non sempre sapresti dire perché una cosa è bella. Ci vuole tempo per capirlo. A volte capisco dopo anni perché ho fotografato certe cose che lì per lì mi colpivano e basta, senza troppa riflessione”. Non vorrebbe tornare indietro, anche se a volte è tentata dalla normalità. Il college? Forse più avanti, non ora. “Magari studierò qualcosa di diverso dalla fotografia. Avrei ucciso per entrare nella scuola di fotografia di Yale, adesso invece mi fa paura l’idea, non credo di essere pronta per essere distrutta dai miei idoli”. Forse il rischio più evidente della sua estetica è quella di essere legata al momento, di avere una data di scadenza. Viste oggi in un bar di Williamsburg certe foto sono perfette, ma poi? Le chiedo se non ha paura di rivedere le sue foto fra vent’anni e di ritrovarsi a dire che fanno davvero 2015. Risponde di no, non è proprio paura, ma le dà un certo sollievo quando “mia nonna e la sorellina della mia migliore amica, che ha otto anni, mi dicono che hanno apprezzato una foto. Le mie foto sono qui e  ora, ma aspiro a fare qualcosa che è senza tempo. Cerco di raccontare storie e sentimenti universali e l’estetica è di oggi ma non è così avanguardista o folle, non vorrei dire rischiosa, perché credo di prendermi qualche rischio, da allontanare gli occhi più adulti. Allo stesso tempo quelli della mia generazione capiscono al volo i riferimenti. Il punto è che comunque non lo faccio apposta, non penso a tutte queste cose quando fotografo, guardo e scatto, basta”.

 

[**Video_box_2**]Ci sono riferimenti evidenti a Ryan McGinley, catalizzatore di sentimenti panici e di gran ritorni alla natura: “Lo amo molto, ma il mio lavoro si sta muovendo in un’altra direzione”. Tipo? “Mi sto concentrando sulla costruzione di storie, sulla cinematografia. Vorrei fare film in un futuro, ne ho appena scritto uno, ma è tutto quello che posso dire al riguardo in questo momento. Ma certo, continuerà anche a fare foto. Presto uscirà anche il mio primo libro di fotografie. Vorrei essere in grado di raccontare una storia dall’inizio alla fine, mentre le fotografie sono più misteriose, ambigue, è un istante soltanto, una foto può portarti fuori strada o darti falsi indizi. Il video è il tempo continuo, la foto è un solo punto nel tempo, due linguaggi molto diversi”. Le piace da morire Harley Weir, ma ultimamente è più ai registi che ai fotografi che si ispira: “Il mio film preferito in assoluto è ‘Paris, Texas’ di Wim Wenders. Amo molto David Lynch, Sofia Coppola”. Nel mondo di Olivia c’è anche tanta musica, e quando le chiedo chi le piace spara una serie di nomi d’essai, indie, d’avanguardia, roba impegnata che s’addice a un’artista impegnata che tutto il mondo corteggia e tutta Chelsea vorrebbe alle feste delle gallerie. Alla fine sorride e fingendo di vergognarsi emette un sussurro: “Beyoncé”.


 
“Gente di New York” è una serie di interviste realizzate da Mattia Ferraresi. Le prime due puntate, su Bill Keller e Gregory Alan Thornbury

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