Christian Thielemann, attuale direttore della Staatskapelle di Dresda, avrebbe dovuto essere nominato sul podio dei Berliner, primo tedesco dopo sessant’anni

La bestia nera del podio

Giulio Meotti
Storia del grande Thielemann, bocciato dalla guida dei Filarmonici di Berlino per le sue idee conservatrici. “Come capo dei Filarmonici, Thielemann non è politicamente sostenibile”, aveva sentenziato pochi giorni fa la Berliner Zeitung, guidando la campagna della stampa tedesca contro la sua nomina, parlando di “stereotipo della guerra tedesco-nazionalista”.

Lo hanno soprannominato “die konservative Diva”. Christian Thielemann avrebbe dovuto essere il primo tedesco dopo Wilhelm Furtwängler a tornare dopo sessant’anni sul podio dei Berliner. Invece i 124 musicisti della più gloriosa orchestra sinfonica del mondo, riuniti in gran segreto per eleggere il successore di Simon Rattle, hanno deciso di non darsi un direttore piuttosto che finire diretti da quel “conservatore”, “sciovinista” e “islamofobo” di Thielemann.

 

“Come capo dei Filarmonici, Thielemann non è politicamente sostenibile”, aveva sentenziato pochi giorni fa la Berliner Zeitung, guidando la campagna della stampa tedesca contro la sua nomina, parlando di “stereotipo della guerra tedesco-nazionalista”. Ostracismo ideologico, non certo musicale. Perché Thielemann, allievo di Von Karajan, è considerato il più grande direttore tedesco vivente. Un dio della musica. Ci dice Frederik Hanssen, critico musicale del Tagesspiegel: “Formalmente non si sa niente del voto, che era segreto. Thielemann è molto berlinese, poco diplomatico. E’ il tipico borghese di rango attento all’educazione e alla filosofia, molto prussiano con l’amore per il nord della Germania. Thieleman è legato all’idea della musica come qualcosa che viene dal cielo, di divino, quasi una atmosfera religiosa. Dunque nel voto ci sono elementi politici ed estetici”.

 

Come scrive il Telegraph, che ha pubblicato la ricostruzione più dettagliata di quanto sta avvenendo nella cultura e nella musica tedesca, “all’interno dell’orchestra è comunemente accettato che Christian Thielemann è il candidato più eccezionale. Tuttavia, non hanno votato per lui. Perché no? Politica”. Thielemann ha diretto la Filarmonica di Monaco e la Deutsche Oper di Berlino, ed è attualmente il direttore della Staatskapelle di Dresda e l’animatore del Festival wagneriano di Bayreuth. Nel repertorio romantico, Thielemann è “supremo”. Tuttavia, scrive il Telegraph, “nella progressista Berlino c’è disagio che il direttore sia un uomo che ha espresso opinioni conservatrici, alcuni sostengono reazionarie”, e che gli hanno già precluso una carriera negli Stati Uniti.

 

“Il musicista che tiene un busto di Federico il Grande sulla propria scrivania è un prussiano dalle opinioni robuste”. Come quando Thielemann disse che “la democrazia non c’entra niente con una orchestra”.

 

Thielemann fra i primi ha osato mettere in discussione certi tabù, come quando scelse di eseguire “Palestrina” di Hans Pfitzner, grande musicista e nazista, morto in miseria nel 1949 in una casa per anziani, con queste parole: “Cosa ha a che fare il C minore con il fascismo?”.

 

Quando Thielemann ha rilasciato un’intervista all’inizio di quest’anno, in cui esprimeva simpatia se non supporto per il movimento antislamista Pegida, i Berliner in segno di protesta hanno immediatamente affisso un poster sulla torre della loro sala da concerti, la Philharmonie, che diceva: “Una orchestra, quattro religioni, 124 musicisti”. Molto meglio allora Daniel Barenboim, grande direttore e soprattutto ebreo di sinistra e cosmopolita, dato adesso fra i favoriti dopo una pausa senza direttore che durerà sei mesi. O perché non il vulcanico venezuelano Gustavo Dudamel, attuale direttore della filarmonica di Los Angeles e legato a Hugo Chavez, o il franco canadese e apertamente gay Yannick Nézet-Seguin?

 

C’è persino chi ha paragonato l’eventuale nomina di Thielemann al ruolo di “Reichsorchester”, orchestra del Reich da cui i musicisti ebrei venivano cacciati e la filarmonica fu accusata di essere al servizio di Hitler. C’è chi ha ribattezzato Thielemann “il giovane Karajan”, alludendo al passato nazista del grande conduttore.

 

Ma cosa ha scritto di così scandaloso Thielemann su una pagina intera della Zeit da giocarsi il posto di direttore? “Le persone non hanno il coraggio di dire quello che pensano” ha scritto il musicista dopo la strage di Charlie Hebdo, prendendosela con la “correttezza politica” e il “linguaggio indifferenziato”. E ancora: “Pegida non è una malattia ma un sintomo”, un sintomo della crisi “dei valori su cui si fonda la nostra comunità e che io chiamo valori borghesi”, Quali sono? “Oltre alla libertà di stampa”, “l’interazione con l’arte e la cultura che ci insegna a rispettare le idee degli altri e ad affrontare il conflitto pacificamente”.

 

E poi “la famiglia, la decenza, l’onestà, il rispetto, in breve tutto ciò che fa parte di una educazione umana”. “L’islam appartiene alla Germania?”, si è chiesto Thielemann nel passaggio più criticato. “Forse un giorno la cristianità apparterrà alla Turchia e l’ebraismo al mondo arabo. Ma fino ad allora dobbiamo poter rispondere di no, senza passare per fascistoidi, populisti di destra o intolleranti”.

 

Duro l’affondo contro il multiculturalismo: “Trovo inaccettabile che un giovane di origine araba gridi di fronte al proprio insegnante di sesso femminile che non ascolta le donne. Altrettanto inaccettabile che la gente, a causa dei loro nomi non tedeschi, del loro colore della pelle o della loro religione, non riesca a trovare un posto dove vive. Entrambi i casi dimostrano in quale stato incerto e brutalizzante la nostra società versi”.

 

Poi Thielemann ha attaccato la censura strisciante: “La nostra libertà di parola è qualcosa cui non dobbiamo rinunciare di fronte al terrorismo. Cosa significa libertà in una società aperta e illuminata? Cos’è la tolleranza? Dovremmo dire addio ad alcune libertà perché non riusciamo più ad avere a che fare con esse? Quando suoneremo lo ‘Stabat Mater’ di Rossini, ognuno di noi dovrà pensare ad Auschwitz e Hiroshima, all’11 settembre e a Charlie Hebdo. E coloro che non hanno coraggio lo troveranno, offrendo quella tolleranza di cui andiamo tanto fieri”.

 

Tanto basta per trasformare questo divo del podio, la grande promessa musicale di un’intera generazione, nella bestia nera dell’establishment. In una bacchetta proibita.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.