Elisabeth Lévy

Elisabeth Lévy, la castiga-gauche, contro il modello francese sull'islam

Nicoletta Tiliacos
E’ certamente lei, Elisabeth Lévy, la più dolorosa spina nel cuore della sinistra benpensante francese. La fondatrice e direttrice del mensile Causeur (e del sito  Causeur.fr), nata a Marsiglia in una famiglia di immigrati ebrei algerini.

Roma. E’ certamente lei, Elisabeth Lévy, la più dolorosa spina nel cuore della sinistra benpensante francese. La fondatrice e direttrice del mensile Causeur (e del sito  Causeur.fr), nata a Marsiglia in una famiglia di immigrati ebrei algerini, da laica a tutto tondo e mai dimentica delle origini di sinistra, attacca il politicamente corretto ovunque si manifesti: nella retorica del “mariage pour tous” (“nel momento in cui cambia i fondamenti antropologici della filiazione”, dice la Lévy) come nei nuovi programmi scolastici autoflagellanti della République promossi dalla ministra dell’Educazione, Najat Vallaud-Belkacem; nel tentativo di rendere reato la prostituzione (fu sua l’idea della lettera dei “343 maiali” contro il fallito progetto di legge socialista del 2013) come nella tirannia del “sessualmente corretto” (tema del prossimo numero del mensile), improntato all’idea “davvero ridicola che la sessualità debba essere trasparente e democratica”.

 

A Elisabeth Lévy, di passaggio a Roma e al Foglio nei giorni della riconferma di Cameron, abbiamo chiesto prima di tutto se in quella vittoria vede un effetto anche del cambio di verso nella politica inglese sull’immigrazione (giusto ieri il premier britannico ha detto che di quote di immigrati assegnati dall’Ue non vuole nemmeno sentir parlare, mentre azioni militari per fermare gli scafisti). La direttrice di Causeur risponde che “naturalmente il modello inglese e quello francese sono molto diversi, multiculturale il primo e assimilazionista il secondo; mi sembra però che in Inghilterra oggi ci sia molta più libertà di mettere in discussione quello che non va, senza paura di apparire reazionari o razzisti. Cameron lo ha fatto, e probabilmente questo ha pagato in termini di risultato. In Gran Bretagna, in passato – aggiunge – era successo che su una vicenda di racket di prostituzione gestito da pachistani i servizi sociali avessero a lungo taciuto, per paura di essere accusati di razzismo. Nella Francia di oggi è difficile trovare, tra i politici, qualcuno che abbia il coraggio di Cameron e abbia chiaro che la richiesta di adattarsi fatta a chi arriva non significa attaccare l’eguaglianza tra gli individui, mai da mettere in discussione. Quella richiesta oggi in Francia la fa apertamente solo il Front national (anche se, guarda caso, più si avvicina al potere più va sfumando i toni)”.

 

Il tema dell’assimilazione fallita – uno dei grandi nodi dell’attuale “malattia francese”, tragicamente evidenziato dagli attentati islamisti di gennaio – va analizzato, a giudizio di Elisabeth Lévy, a partire dall’abbandono delle élite al potere di un vero discorso sulla nazione: “Abbiamo rinunciato a trasformare gli immigrati in francesi. Il discorso dell’assimilazione repubblicana ha funzionato a lungo, e quando funziona quel sistema va più in profondità e si dimostra più efficace del multiculturalismo all’inglese”. Poi, negli anni Ottanta, è cominciata l’èra di “SOS racisme”, dell’autocolpevolizzazione, dell’odio di sé in quanto occidentali trasformato in ideologia (ora, nei piani governativi, anche in programmi scolastici, non più Balzac ma storia del Mali) “e non ci si rende conto che ormai è come se dicessimo a chi vuol venire in Francia: siamo dei malvagi razzisti, colpevoli di ogni bruttura, volete vivere con noi? Basta vedere che cosa è successo dopo le stragi di gennaio e dopo la grande manifestazione repubblicana: passano un paio di settimane e il premier Manuel Valls non trova di meglio che parlare di ‘apartheid’ nelle banlieue. Ancora una volta, per dire che i cattivi siamo noi”. Elisabeth Lévy non pensa che integrare gli islamici sia impossibile, “ma dobbiamo avere il coraggio di essere chiari sulle regole: come individui abbiamo tutti gli stessi diritti, ma finché siamo in Francia la mia minigonna ha più diritti del tuo burka”.

 

[**Video_box_2**]Per la copertina dell’ultimo numero di  Causeur, Elisabeth Lévy ha scelto il tema dei cattolici di Francia, i “poco amati della République”. “Da parte di Hollande vediamo il rifiuto quasi fisico di pronunciare la parola ‘cristiano’. E nel recente piano di lotta contro il razzismo e l’antisemitismo annunciato da Valls ci sono una quarantina di misure per tutelare chiunque – islamici, ebrei, omosessuali, stranieri – ma non i cristiani”. I cattolici di Francia hanno buone ragioni nel recriminare, aggiunge Elisabeth Lévy, “ma l’errore più grande, da parte loro, sarebbe quello di atteggiarsi a vittime. Il cristianesimo non è una religione tra le altre in Francia, il cristianesimo è la storia della Francia. Capisco che dopo tante profanazioni di tombe e di chiese, e soprattutto dopo l’attentato fallito di Villejuif, ci sia, da parte cattolica, la tentazione di sentirsi ‘maggioranza oppressa’. Ma io dico: siete la Francia e dovete reagire come la Francia”. Non è un buon affare, insomma “rischiare di perdere definitivamente lo statuto di maggioranza culturale in cambio dei galloni di minoranza religiosa”. Per questo, la direttrice di Causeur considera improprio, oltre che a doppio taglio, l’uso del termine “cattofobia”. Si può comprensibilmente soffrire “di fronte alle vignette blasfeme con il Papa sodomizzato. Ma se chiediamo ai musulmani di accettare la libertà di caricatura, anche cristiani ed ebrei – lo so bene perché mio padre è un ebreo praticante, al contrario di me, e si scandalizza – devono accettare di essere feriti da quello che Alain Finkielkraut (una delle firme di Causeur, ndr) chiama, con un’espressione che trovo molto efficace, ‘il dolore della libertà’”.

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