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Distanziati a scuola, vicini in autobus

Maria Carla Sicilia

Controllare che la capienza sui mezzi pubblici non superi l'80 per cento sarà difficile, ci dice l'esperto di trasporti Carlo Scarpa. Ma l'accordo raggiunto tra regioni, ministeri e Cts è il più realistico possibile 

Chi si aspettava che dopo il Covid nulla sarebbe stato come prima dovrà ricredersi. Almeno per quanto riguarda i trasporti, che dopo l'accordo raggiunto lunedì tra regioni, ministeri e comitato tecnico scientifico sono pronti a iniziare una fase 3 che prevede modalità di viaggio sostanzialmente simili a quelle pre virus. L'accordo è una sorta di "liberi tutti" mascherato, dice al Foglio Carlo Scarpa, docente di Economia politica all'Università di Brescia e presidente di Brescia Mobilità. Dopo avere trattato a lungo sulla capienza massima da consentire, la scelta è ricaduta sull'80 per cento. Un compromesso che, come qualsiasi altra percentuale si sarebbe potuta scegliere, pone un problema specifico, che è quello del controllo. “Nessuno ci proverà neanche a fare dei controlli”, ci dice Scarpa. “Intanto perché non ci sono gli strumenti per farlo, e poi perché con tutte le eccezioni alla regola – dai congiunti che possono sedersi vicini, alla capienza del 100 per cento consentita nei viaggi inferiori ai 15 minuti – alla fine l'unica novità sarà indossare la mascherina, mentre  per il resto ci ritroveremo a viaggiare come prima”.

         

Un esempio su tutti è quello dei treni regionali, su cui viaggiano ogni giorno migliaia di studenti e lavoratori. Difficile immaginare, spiega il professore, che superato l'80 per cento della capienza un treno si fermi per fare scendere qualcuno. Anche perché, a differenza dei treni a lunga percorrenza, su queste tratte al biglietto non corrisponde un posto a sedere assegnato. “Semplicemente il provvedimento non è applicabile, così come non lo è la deroga dei 15 minuti, almeno fuori da specifici casi, che in Italia sono minoritari. Su treni e autobus di linea è assolutamente priva di qualunque possibilità di applicazione”.

   

Con un servizio di trasporti così difficile da adeguare alle nuove esigenze, evitare assembramenti dipenderà alla fine dalla domanda di mobilità. Secondo Asstra, l'associazione che riunisce le aziende di Tpl, dovrebbe essere di circa l'85 per cento rispetto a prima del coronavirus, ma ci sono troppe incognite e differenze territoriali per riuscire ad avere una fotografia attendibile. “In genere, negli orari di punta, la domanda è superiore al 100 per cento della capacità offerta dal trasporto pubblico", continua Scarpa. Per questo, rimodulare la richiesta di mobilità è l'unico modo per garantire il distanziamento. Come? “Scaglionando gli orari di lavoro, puntando molto sullo smart working e sulla didattica a distanza. Altrimenti il trasporto pubblico, anche nelle situazioni dove è meglio attrezzato, non riuscirà a soddisfare la domanda”. Al momento però scuole e uffici si organizzano in ordine sparso. “In questo modo – fa notare – è impossibile pianificare i servizi anche solo all'interno della stessa città”.

   

Tuttavia, l'accordo, raggiunto dopo lunghe trattative, è forse l'unico possibile per consentire la riapertura delle scuole e la ripresa delle attività dopo l'estate. "Alla fine – dice Scarpa – il governo si è accorto che non ci si può inventare qualche migliaio di autobus o di conducenti in più”. Non solo per i costi e per i tempi, ma anche perché le scorte di veicoli sono comunque limitate. Quelli che ci sono sono pochi e vecchi. Se si considerano solo gli autobus, l'offerta è di 7,8 unità ogni 10 mila abitanti secondo gli ultimi dati Anfia. Si tratta di mezzi che per due terzi hanno oltre 10 anni di anzianità e per il 45 per cento più di 15. Ora che per rispondere allo shock economico delle aziende il governo ha stanziato nuove risorse – oltre ai 400 milioni del decreto Agosto e ai 500 del decreto Rilancio, altri 200 milioni promessi con la legge di Bilancio – la strada da imboccare, a voler imparare una lezione dalla pandemia, potrebbe essere quella investire per rafforzare il servizio. Eppure, secondo Scarpa, “il fondo è un buon segnale, ma le risorse sono insufficienti”. “Se non si ripianano i mancati ricavi stiamo solo spostando il problema dalle aziende agli azionisti”, che per la grandissima parte delle aziende significa gli enti locali. Insomma, “o ci rimette lo stato o ci rimettono i comuni”. In ogni caso, verrebbe da dire, ci rimettono gli utenti.

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