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La Notte bianca alla Sapienza e la legalità sottomessa alla cultura dell'okkupazione

Il rave con morto all'università di Roma fa riemergere un fantasmagorico limbo italiano

Roma. Un evento “autofinanziato, cento per cento autogestito” per “smascherare l’Università di carta”. Così il video della “Notte bianca alla Sapienza”, edizione 2018: quattro studenti addobbati da eroi anti sistema della “Casa di carta” a spasso tra i prati della Città Universitaria con fumogeni e striscioni e megafoni incitando alla rivolta “contro tutti i divieti dell’amministrazione”, la “cancellazione dei diritto”, per le “relazioni transitanti”, i “flussi”, le “libere coesistenze nella metropoli” più lezioni gratuite di “capoeira” contro lo smantellamento del welfare.

  

 

Come nella serie Netflix, se l’opinione pubblica non è tutta dalla loro parte, nessuno fa granché per ostacolarli. I divieti sono così repressivi che siamo giunti alla quindicesima edizione, presentata in pompa magna qualche giorno fa dal Manifesto: “Non si spegne la luna: torna la notte bianca alla Sapienza”. Solo che quest’anno c’è scappato il morto. Una disgrazia. Ma chi li ha autorizzati? Tutti ora si chiedono come mai un’Università resti aperta tutta la notte a piena disposizione dei “collettivi”, per un party di sfrenata creatività. Che inutile interrogativo, quale vanissimo affanno. Qui signori si chiude sempre un occhio.

 

Non si dovrebbe fare, ma si fa e si fa perché conviene a tutti. Un po’ perché “vietare” la “sperimentazione culturale indipendente” e i “transiti” e i flussi” è di per sé “fascista”; un po’ perché questo è il cuore stesso dell’antagonismo di sistema, della “legalità all’italiana”, del nostro “romanzo di formazione” alla partecipazione democratica: fiaccolate, lenzuola, piazze indignate, lotta all’evasione e alla corruzione ma amorevoli pacche sulle spalle agli occupanti che fanno “vivere gli spazi” con l’ingresso a pagamento, pardon per “sostenere le spese legali dei movimenti studenteschi con giocolerie, live painting, lezioni di kickboxing” quindi a “sottoscrizione” (aiutano qui le formidabili torsioni della nostra lingua, come quando decidemmo che le rapine si chiamavano “espropri”); dunque si montano palchi e dj set, senza che nessuno se ne accorga, senza Siae o bollette per le spese di corrente elettrica, tanto poi qualcuno la riattacca.  Un protocollo intramontabile. Pura antropologia nazionale.

 

Si crea qui il fantasmagorico limbo italiano: un evento né legale, né illegale, non autorizzato ma tollerato, in nome della nostra genuflessione alla cultura dell’okkupazione (“La responsabilità di questa morte – ha detto ieri Salvini buttandola come sempre in caciara ma cogliendo come sempre un tratto di senso comune – è anche di chi permette queste illegalità da troppo tempo, tra occupazioni di aule e feste non autorizzate con uso e abuso di alcolici e altre sostanze”). Ora ci sono dieci denunce, ci sono ventuno indagati. Ma resta il fatto che quando la birra non è “antifascista” o di CasaPound mi fanno la multa per un tavolino fuori, mi fanno la multa per la cappa fumaria troppo bassa o troppo alta di un centimetro. Gli organizzatori del rave alla Sapienza, “Sapienza Porto Aperto”, ieri sono intervenuti con un post su Facebook spiegando che “durante lo svolgimento dell’evento non vi era alcun ticket d’ingresso, ma una semplice offerta libera”, che “il cancello di piazzale Aldo Moro era aperto”, che il rave non era un rave “un’iniziativa artistico-culturale articolata in dibattiti sull’attualità, sport, musica, danze, live painting, ideata per vivere la città universitaria in modo diverso dal solito”.

  

Resta il fatto che in università è più complicato invitare un professionista a un convegno (si devono compilare miliardi di moduli in pdf, prenotare l’aula sei mesi prima, non lo si può pagare se “non previsto dal bando”) che organizzare un rave-artistico-culturale coi collettivi antifascisti, in nome dei “porti aperti”. Poi dice perché il Truce vince.