Un'opera buona senza carità pelosa rispolvera il perduto “fulgor” della vecchia Italia

Fabio Canessa

Un articolo del Pais, un incontro, “l’eclipse” e l’intreccio delle coincidenze

Si dà il caso che un mese fa mi trovassi in gita scolastica a Barcellona e, al mattino, comprassi una copia del País (che è il corrispettivo spagnolo del Corriere della Sera, corretto con un po’ di Repubblica). Si dà il caso che, nella pagina culturale, rimanessi colpito dal titolo di un articolo di Antonio Muñoz Molina, uno dei maggiori scrittori contemporanei: “Italia: Fulgor y Eclipse”.

 

Lo leggo e concordo con la malinconica analisi di Molina, il quale scrive in sostanza che, quando lui era giovane, l’Italia era un punto di riferimento tutto “fulgor” e oggi è penosamente decaduta nella “eclipse”. E non si riferisce solo alla politica di Salvini, ma anche alla letteratura, al cinema, alla musica, all’arte, alla cultura in generale. Dice che negli anni Settanta tutti gli spagnoli “volevano essere italiani” perché il nostro, all’epoca, era considerato il popolo “più sofisticato politicamente e culturalmente, più flessibile, meno rustico”. Aggiunge che, proprio per questo, a vent’anni visitò l’Italia in autostop con un amico e ricorda ancora il nome di un signore che li caricò vicino Siena, tale Angelo Mambrini. Un “conductor amable y cultivado” che nel pensiero di Molina ha sempre rappresentato l’immagine dell’italiano colto, affabile e generoso: infatti invitò i due ragazzi a pranzo nella sua casa sul Monte Amiata, ad Abbadia San Salvatore, parlando in latino tra un piatto di salsicce e un bicchiere di vino.

 

Si dà il caso che con me a Barcellona ci fosse Elena Arezzini, un’amica insegnante dell’Amiata, a cui faccio subito leggere l’articolo. Si dà il caso che lei, tornata in Italia, racconti tutto a Mariella Baccheschi, una giornalista del Corriere di Siena, la quale, incuriosita, si informa e scopre che Angelo Mambrini oggi ha 98 anni e lavora ancora, con la figlia Stefania, nella sua agenzia Express. Lo va a trovare e gli racconta tutto: stupore, gioia e commozione dell’anziano signore, che ricorda di aver offerto passaggio e pranzo a quei giovani autostoppisti più di quarant’anni fa, ignaro che uno dei due sarebbe diventato uno dei più importanti scrittori della Spagna. A questo punto Gabriele Mambrini, nipote di Angelo, riesce a rintracciare via social Antonio Muñoz Molina, che oggi ha 63 anni, per ringraziarlo di aver citato il nonno come modello del passato “fulgor” italiano e gli manda una foto di Angelo Mambrini com’è adesso. Molina gli risponde subito pieno di entusiasmo e di emozione, dichiarando che questa lettera gli ha dato “una delle grandi allegrie della mia vita” e ribadendo che “il fatto che non mi sia scordato in più di quaranta anni è una prova della riconoscenza che ho sempre sentito verso la sua generosità”.

 

Questa è la storia. Quando, a Pasqua, mi sono confessato, il prete mi aveva detto di fare, come penitenza, “un’opera buona”. Io ho cercato di fare qualche buona azione, ma poco convinto e per niente sicuro di aver centrato l’obiettivo. Ora invece sono certo che questa ha tutti i crismi dell’“opera buona” come la intendo io. Senza pietismi, moralismi, paternalismi, carità pelosa. E senza l’insopportabile applicazione social-filantropica. Forse l’“opera buona” scocca solo quando sappiamo collaborare con il caso e assecondare l’intreccio delle coincidenze.

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