I nuovi miserabili

Riccardo Lo Verso

Disposti a farsi spezzare le ossa per incassare i soldi delle assicurazioni. Il degrado dell’altra Palermo, dove sguazza ancora Cosa nostra

L’orrore è una cosa, la sorpresa un’altra. Non sorprende – è triste ammetterlo – scoprire che a Palermo c’è gente disposta a farsi spezzare le ossa per incassare i soldi delle assicurazioni. Non è assuefazione, ma obiettività. Gli incidenti erano falsi, il dolore vero. La cronaca si è fatta nerissima. Porta in superficie il degrado di una città. Irrompe nell’estate di una Palermo che affascina e si guadagna le prime pagine della stampa nazionale e internazionale.

 

La Capitale della cultura e dell’arte che ospita la biennale nomade “Manifesta” conquista i critici e attira i turisti. Le contraddizioni diventano tratto distintivo da celebrare. E’ un merito e al contempo un vanto per chi, come l’eterno sindaco Leoluca Orlando, si è giocato tutto sull’appeal internazionale di Palermo. Ha finito per badare all’immagine che la città offre di sé al mondo, smarrendo quella riflessa nello specchio della quotidianità.

 

Alla Capitale della cultura e dell’arte, alla città che piace se ne contrappone un’altra che lontano dai riflettori affoga

La cronaca fa da guastafeste. Impone l’analisi delle contraddizioni senza il velo dell’ipocrisia. Alla Palermo che piace si contrappone una città che lontano dai riflettori affoga. La prima dovrebbe trainare la seconda, sorreggerla nel percorso di crescita, ma riesce a malapena a nascondere le brutture con dei lampi di luce. Lampi, appunto, che abbagliano e si diradano. Per mettere a fuoco la realtà, quella vera, bisognerebbe calarsi nelle viscere della città dove si consuma l’orrore, andare oltre le cataste dei rifiuti che non sono installazioni di artisti contemporanei, le strade al buio, i conti in rosso, i servizi insufficienti, le periferie dimenticate, l’abusivismo imperante, i cantieri infiniti che non sono patrimonio dell’umanità. Si finirebbe per dovere ammettere che Palermo è molto peggiore di come si presenta. E senza neppure mettere nel conto il tasso di disoccupazione che è il doppio rispetto al resto di Italia e la fuga dei giovani in cerca di lavoro. Meglio restare in superficie, dove la munnizza si può sempre scansare.

 

Accade, però, che di tanto in tanto la cronaca renda il percorso meno comodo. Si viene risucchiati negli inferi della città dove si scopre che ci sono figli della Capitale della cultura che hanno accettato di sprofondare. Come? Facendosi spezzare un braccio con una valigia piena di pietre per truffare le assicurazioni. Trecento euro per un braccio, quattrocento per una tibia. Un acconto in attesa di incassare gli indennizzi. Si davano appuntamento in un magazzino, chiudevano gli occhi e crac. Eri fortunato se ti avevano iniettato un blando anestetico, altrimenti svenivi per il dolore. Al risveglio ti avevano già scaricato in una angolo di città, dove nel frattempo qualcuno aveva chiamato un’ambulanza giurando di avere visto la macchina che investiva quel poveretto che attraversava la strada sulle strisce pedonali.

 

Nelle scorse settimane hanno arrestato undici persone. Uno è uscito dagli uffici della Squadra mobile reggendo il passo con le stampelle. Prima si è fatto fratturare le gambe con una mazza di ferro e poi ha iniziato a spezzarle lui le gambe ai nuovi complici adescati con la promessa di un facile guadagno. Era diventato un lavoro. Uno sporco lavoro, ma redditizio.

 

L’insieme di viuzze che nel Medioevo erano abitate da straccioni e mendicanti. Un microcosmo che raccoglie le briciole dal clan

Nel blitz della polizia c’è molto più della disperazione dei tossicodipendenti, delle madri e dei padri disoccupati che hanno visto nel dolore fisico l’unica via di scampo. C’è, infatti, l’assuefazione al degrado della condizione umana. Un degrado in cui ci sguazza, anche e soprattutto, la mafia. O meglio, la nuova mafia che si mischia alla delinquenza comune. Il confine non di distingue. C’è il sospetto che i boss pretendessero il pizzo sugli incassi dei finti incidenti. Qualcuno si è pure rivolto al mammasantissima del quartiere quando ha capito che all’enorme dolore corrispondeva pochissimo denaro. I mafiosi, modelli del disvalore, sono scesi da tempo dal piedistallo. I rioni sono popolati di mafiosetti di borgata. Una fotografia aggiornata l’ha consegnata ai verbali la pentita Monica Vitale. “Fanno i ruffiani con le donne mentre i mariti sono in carcere”, “organizzano pestaggi”, “si ubriacano e tirano di cocaina” eppure hanno la presunzione di farsi chiamare uomini d’onore. L’importante è nascondere il fatto di avere “una sorella separata”, “un parente frocio” o una “madre chiacchierata”.

 

Sono i miserabili di Cosa nostra che regolano la vita della Palermo maleodorante. Impongono il pizzo, prendono una percentuale sugli incassi degli spacciatori, autorizzano l’apertura dei negozi. Si credono potenti perché decidono chi deve vendere abusivamente la birra nelle feste di quartiere, ma quando rientrano a casa tirano fuori l’argenteria dai cassetti per portarla al Monte dei pegni. Già, il Monte dei pegni, luogo simbolo della vecchia e delle nuova Cosa nostra.

 

Trecento euro per un braccio, quattrocento per una tibia. Un acconto in attesa di incassare gli indennizzi

Nell’autunno del 1991, da un’Alfa 164 di colore bianco scesero Totò Riina e Matteo Messina Denaro. Presero un borsone e lo consegnarono a un gioielliere di Castelvetrano, Francesco Geraci. Per dimostrare di essere un pentito attendibile, Salvatore Cancemi offrì in cambio il tesoro del padrino corleonese. Sotto sequestro finirono gioielli e lingotti d’oro che valevano due miliardi di lire. Era una parte del colpo al Monte dei pegni della vecchia Sicilcassa di via Pasquale Calvi, una strada nella terra di mezzo fra la via Libertà dalle vetrine luccicanti e le bettole del Borgo Vecchio.

 

Nell’estate di quell’anno sette banditi sbucarono dai bagni e sorpresero gli impiegati appena rientrati dalla pausa pranzo. Razziarono i gioielli che la povera gente portava al Monte per far campare la famiglia. Le polizze di pegno venivano spillate sulle buste di plastica che custodivano i regali di una vita, in attesa che venissero riscattati. Nella stragrande maggioranza dei casi la speranza moriva. Dal caveau sparì merce per 18 miliardi di lire. Mentre Cancemi, capomafia di Porta Nuova, gongolava per il colpo del secolo, Riina lo mandò a chiamare. “E che problema c’è”, rispose lui. U zu Totò, però, era uno che non dimenticava. Due anni dopo, nel ‘93, un altro corleonese, Binu Provenzano, gli fece recapitare un pizzino. Aveva bisogno di parlargli e subito. Cancemi preferì declinare l’invito all’appuntamento con la morte. Cambiamento di programma: bussò alla porta della caserma Carini, a due passi dal Teatro Massimo. Si buttò pentito.

 

I rioni sono popolati di mafiosetti di borgata. La pentita: “Fanno i ruffiani con le donne mentre i mariti sono in carcere”

A parte i lingotti di Riina, della refurtiva nessuna traccia. Di recente il Monte dei pegni è tornato sulla bocca di mafiosi e pentiti. Vi finiscono anche i gioielli rubati in giro per la città che poi vengono ricomprati all’asta. Raffaele Favaloro, boss emergente del mandamento di Resuttana, che fu il regno dei potenti Madonia, aveva le conoscenze giuste per riscattare le polizze strappate a prezzi da fame alle persone che non erano più in grado di pagarle. Favaloro rischiò di essere ammazzato. La sua esuberanza non era gradita e qualcuno era pronto a sbarazzarsi di un uomo al quale la nuova mafia ha perdonato la più grave delle colpe, quella di avere un padre pentito.

 

La mafia che alla fine degli anni Sessanta faceva sparire un capolavoro come la “Natività con i Santi Lorenzo e Francesco”, dipinto da Caravaggio, in un oratorio ala Kalsa, nella vecchia Palermo, oggi svaligia gli appartamenti e usa il Monte dei pegni per ripulire il bottino. Del Caravaggio non c’è traccia. Alcune recenti rivelazioni dicono che il dipinto sarebbe passato dalle mani di Stefano Bontade, il principe di Villagrazia che sedeva nei salotti buoni della città, in quelle di Gaetano Badalamenti, capomafia di Cinisi, e infine venduto in Svizzera. Chissà dov’è finito il capolavoro rubato. Le indagini sono ripartite dal retrobottega di un giocattolaio di Massafra, in provincia di Taranto. Un giallo internazionale più che un furto. Roba che vale milioni di euro, mica gli spiccioli del Rolex, modello Daytona, per il quale Favaloro, il nuovo che avanza in Cosa nostra, si gonfiava il petto. Una banda di finti finanzieri se l’era portato via dall’abitazione di una facoltosa donna e il boss lo aveva impegnato per poi ricomprarlo all’asta del Monte dei pegni. Anche questa è la nuova mafia.

 

Chi esce dal carcere dopo anni di detenzione, e di pezzi grossi in libertà ne sono tornati parecchi, sta cercando di rimettere le cose a posto. Magari è riuscito a preservare le ricchezze del passato e sta investendo nella droga o nell’apertura di attività commerciali. Reperire un prestanome è facilissimo. Come la giovane donna, vedova e madre di tre figli, che in cambio di cinquanta euro al mese si intestò un magazzino del boss. O lei o un’altra. Di gente che alza la mano se ne trova parecchia tra chi vive nelle stradine attorno alla Vucciria e Ballarò, mercati storici di Palermo, o alla Zisa dove il castello del percorso arabo-normanno è una perla in mezzo ad ampie sacche di degrado. Sembra una corte dei miracoli, l’insieme di viuzze che nel Medioevo erano abitate da straccioni, mendicanti ed emarginati sociali. Un microcosmo che raccoglie le briciole dal clan. Perché stupirsi, dunque, se a Palermo qualcuno decide di sprofondare ancora più giù, facendosi spezzare una gamba per quattrocento euro? Si prova orrore, ma lontano dai riflettori la Capitale della cultura affoga.

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