De Benedetti e Scalfari sono vittime dei mostri creati da Repubblica

Claudio Cerasa

Moralismo cieco, giustizialismo dissennato, anti berlusconismo chiodato. Le ragioni che hanno portato il fondatore di Rep. a duellare con lo storico editore

Eugenio Scalfari e Carlo De Benedetti – che negli ultimi giorni hanno dimostrato di avere qualche piccolo conto in sospeso da chiarire (“Scalfari è un vanitoso e con me deve stare zitto, gli ho dato un pacco di miliardi, è un ingrato”, ha detto CDB due sere fa da Lilli Gruber) – non potranno ammetterlo neppure sotto tortura ma all’interno del micidiale duello che hanno scelto di combattere a favore di telecamera esiste un elemento che in modo sorprendente li mette dallo stesso lato della barricata: per ragioni diverse, entrambi sono vittime di alcuni mostri creati da Repubblica. Lasciamo stare per un attimo le ragioni personali che hanno portato il fondatore di Rep. a duellare con lo storico editore di Rep. e proviamo a concentrarci sulla ciccia del duello: o se volete, della tragedia di un giornale.

 

 

Il primo atto della tragedia comincia a novembre: Scalfari dice su La7 di preferire Silvio Berlusconi a Luigi Di Maio e Carlo De Benedetti, sul Corriere della Sera, si sente in dovere di dire che le parole di Scalfari sono senza senso e sono quelle tipiche di un uomo vanitoso. Il secondo atto della tragedia comincia la scorsa settimana: tra le carte della commissione sulle banche “spunta” un’intercettazione tra Carlo De Benedetti e il suo broker, dalla quale si evince che l’Ingegnere sceglie di fare un investimento in base a una confidenza fatta dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, relativa a una notizia che in quei giorni era stata già in buona parte anticipata anche da molti giornali. Nel primo caso, Scalfari viene sì difeso dal cdr di Repubblica ma allo stesso tempo alcuni pezzi da novanta di Repubblica (Massimo Giannini e Michele Serra) criticano Scalfari dicendo che tra Berlusconi e Di Maio un uomo di Rep. non può che scegliere Di Maio. Nel secondo caso invece Repubblica attacca Carlo De Benedetti prima con un editoriale non firmato e poi, ieri, con un comunicato in cui il comitato di redazione “ribadisce la propria determinazione a rispondere a ogni attacco che voglia mettere in dubbio il patrimonio di valori che il giornale si è costruito”.

 

Quello che lo storico fondatore e lo storico editore non possono ammettere è che la ragione per cui entrambi sono sotto processo riguarda proprio parte di quel patrimonio di valori che il giornale si è costruito e dal quale né Scalfari né De Benedetti si possono difendere: l’affermazione del moralismo cieco, del giustizialismo chiodato e dell’antiberlusconismo assoluto come princìpi non negoziabili dell’agenda pubblica di un paese. E dunque, ci si può stupire se un giornalista che ha alimentato per una vita questi princìpi venga processato dalle vecchie anime del suo quotidiano per aver detto un’ovvietà: che anche chi non ama Berlusconi, tra un Di Maio e Berlusconi, per il bene dell’Italia non può che schierarsi contro Di Maio? Certo che no. E dall’altra parte, ci si può davvero stupire se un editore che ha finanziato per una vita un giornale che ha alimentato il moralismo venga processato dalle vecchie anime del suo quotidiano, e anche da quelle allevate dal suo quotidiano (da Marco Travaglio a Luigi Zingales), per aver commesso un fatto che non costituisce reato, finito sulle pagine dei giornali grazie a un orrendo metodo giornalistico (le intercettazioni di cui CDB è protagonista sono penalmente irrilevanti e la procura di Roma ha aperto un fascicolo per rivelazione di segreto di ufficio) che in passato Repubblica ha però utilizzato in modo disinvolto per moralizzare il paese contro la minaccia berlusconiana? Ci si può stupire di tutto questo? Certo che no. La storia dei cortocircuiti di Repubblica, però, è interessante non tanto per spettegolare sui problemi di CDB e Scalfari, quanto per mettere a fuoco un problema che non riguarda solo Repubblica ma che riguarda l’Italia. Scalfari e De Benedetti oggi non potranno ammetterlo neppure sotto tortura di avere ancora qualcosa in comune ma quando avranno finito di litigare e si guarderanno negli occhi di fronte a una bagna cauda nelle Langhe dovranno riconoscere che lo stesso moralismo che oggi minaccia di travolgere due signori che hanno fatto la storia di Repubblica minaccia di travolgere la Repubblica italiana. Oggi non potranno ammetterlo neppure sotto tortura, ma il moralismo cieco tendenza Palasharp non ha aperto le porte al riformismo ma ha spalancato le porte a un mostro a tre teste: il grillismo. Ma questa forse è un’altra storia da raccontare.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.