(foto Ansa)

l'editoriale del direttore

Perché Brandizzo sparirà presto dalle prime pagine dei giornali

Claudio Cerasa

Nel caso della strage in Piemonte, le aspettative di poter trovare un capro espiatorio (il capitalismo selvagggio) si sono scontrate con la realtà. Eppure si può piangere la morte di cinque operai anche senza cercare uno scalpo da esibire

La ragione per cui la strage di Brandizzo si allontanerà lentamente dalle prime pagine dei giornali non riguarda un semplice effetto temporale: passano i giorni, la nuova attualità prende il sopravvento e l’attenzione per ciò che è passato svanisce. La ragione riguarda qualcosa di più interessante, e se vogliamo di più triste, che coincide con una sensazione ormai evidente che potremmo provare a sintetizzare così: le aspettative sono state tradite. Le aspettative erano quelle cupe che abbiamo provato a descrivere la scorsa settimana: fare di tutto per dimostrare che quello che è accaduto il 30 agosto sui binari di Brandizzo è il frutto di un sistema malato chiamato capitalismo. Un sistema, si è detto poche ore dopo la morte dei cinque operai, che non fa altro che evidenziare le stesse crepe mostrate ai tempi della strage di Viareggio e della strage della Thyssen, quando i vertici delle società coinvolte negli incidenti furono condannati per responsabilità oggettiva (non potevano non sapere).

 

Rispetto alle premesse, però, a Brandizzo più passano i giorni e più appare evidente, almeno da quello che inizia a emergere dalle indagini, quanto all’origine dell’incidente vi sia un errore umano: gli operai travolti dal treno sono stati mandati sulle rotaie da un collega che non aveva l’autorizzazione da parte dei superiori a mandare i suoi colleghi sulle rotaie. E’ possibile che le indagini cerchino di arrivare ad altro, di contestare per esempio altri problemi di tipo organizzativo o aziendale, come la mancanza di sistemi automatizzati, la mancanza di formazione del personale, la mancata applicazione di sanzioni disciplinari adeguate nei casi di violazione (se si dà un servizio in subappalto bisogna assicurarsi che quel servizio funzioni). Ma fatto sta che quella che i sindacati hanno descritto all’istante come una storia emblematica di quel che succede in  un paese dominato dal capitalismo selvaggio non sembra reggere a un primo confronto con la realtà. E in mancanza di uno scalpo facile (difficile accusare Rfi, la Rete ferroviaria italiana, di essere l’emblema del capitalismo selvaggio: Rfi è una società partecipata al cento per cento dello stato) non si può fare altro che lanciare accuse generiche contro un sistema corrotto, schiavo dell’efficienza, del dogma della produttività e ostaggio della logica del profitto.

 

Basta vittime della logica del profitto, le persone non sono una merce”, ha tuonato ieri il segretario della Cgil Maurizio Landini. Limitarsi a far lavorare la magistratura per appurare ciò che è accaduto non è sufficiente. Occorre creare la cornice e “alzare ancora di più il livello della protesta”, anche per evitare che la giustizia possa rivalersi semplicemente su “su un capro espiatorio”. Le parole tra virgolette sono sempre del segretario della Cgil. E come spesso capita il leader del sindacato più importante d’Italia si trova oggi a dover dare un senso alle proprie iniziative. Subito dopo i terribili fatti di Brandizzo, Landini ha convocato uno sciopero, mosso dalla convinzione sballata di poter assecondare la narrazione del sistema capitalistico da combattere (i capri espiatori vanno bene solo se gli obiettivi sono all’altezza). Il tentativo infruttuoso di alzare la posta da parte del segretario della Cgil non è però un fatto isolato. Pensate per esempio alla campagna fuori tempo massimo lanciata contro il Jobs Act, con l’evocazione di un referendum su cui persino  il Pd ha fatto qualche passo indietro dopo l’iniziale appoggio di Schlein. E pensate poi alla convocazione dello sciopero generale del 7 ottobre contro la manovra, il primo sciopero a memoria d’uomo organizzato contro un provvedimento prima ancora che questo sia presentato. A Brandizzo cercare la verità è un dovere della magistratura. Ma dovrebbe essere anche un dovere per tutti non considerare la “semplice” azione della magistratura, senza cornice, come una sconfitta del popolo. Si può piangere la morte di cinque operai anche senza dover cercare uno scalpo da esibire.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.