Foto Ansa

Una ricetta universale per mettere in sicurezza il paese

Giulio Boccaletti

Ci si è concentrati troppo sulle leggi, poco o nulla sui processi operativi. Ripartire dall’unità di missione Italia Sicura sulle orme dei principi dell'ex funzionario britannico Sir Michael Bayldon Barber

Da un lato la catastrofe romagnola è stata singolare. L’evento ha versato quantità d’acqua eccezionali su un terreno già saturo. Dall’altro, però, si tratta di un copione ampiamente visto, solo recentemente da Senigallia a Ischia. Il ripetersi della storia sembra dirci che il nostro paese sia strutturalmente incapace di uscire dal labirinto kafkiano di una burocrazia paralizzata, investendo in infrastrutture per la prevenzione, come la legge peraltro prevede. In realtà, il problema non è irrisolvibile. 

  

Vi racconto due aneddoti che lo dimostrano. Quando Tony Blair fu eletto primo ministro del Regno Unito nel 1997, fu una svolta epocale. Era il periodo di “Cool Britannia”: un paese grigio che si era risvegliato con un’identità moderna. Tra le promesse elettorali c’era la riforma del settore pubblico, sventrato da anni di tagli del governo Thatcher. Nel primo mandato di Blair, però, i risultati non arrivarono. Con una eccezione. Il dipartimento per l’educazione, guidato da David Blunkett, lanciò una riforma ambiziosa, affidata a un ex insegnante: Michael Barber. Il programma non fu perfetto, ma i risultati furono impressionanti. Gli indicatori di alfabetizzazione degli studenti migliorarono radicalmente, e così fece la capacità di attirare personale qualificato all’insegnamento.

  

Nel secondo mandato del 2001, Blair reclutò Michael per mettere in piedi la Prime Minister’s Delivery Unit, l’unità di missione del Primo ministro. Blair voleva che il metodo di Michael fosse esteso a tutti i dipartimenti. Michael aveva alcuni principi che possono sembrare banali, ma che si rivelarono rivoluzionari. Nella sua unità si teneva un dialogo costante con ciascun dipartimento su cinque domande: 1. Cosa stai cercando di ottenere? 2. Come pensi di farlo e quando? 3. Come saprai se starai riuscendo nell’intento? 4. Se non stai riuscendo, cosa intendi fare per rimetterti in carreggiata? 5. Come ti possiamo aiutare? 

  

Quell’ultima domanda era fondamentale. L’idea era che un’unità esecutiva dovesse sapere in ogni momento a che punto fossero i responsabili di dipartimento e il loro personale nell’implementazione dei propri programmi, e che, a fronte di richieste di aiuto, si potesse mobilitare l’autorità dell’esecutivo per assistere amministratori individuali a risolvere problemi specifici, superando l’inerzia della gerarchia amministrativa. Costruendo relazioni robuste con tutti i dipartimenti, l’unità riuscì ad accelerare le riforme del governo.

  

Nel 2007 Michael scrisse un libro, Instructions to deliver (grosso modo “Istruzioni per raggiungere i risultati”) e portò la sua esperienza in giro per il mondo. Ebbi la fortuna di essere suo collega per un periodo. Ci incontravamo ogni tanto all’aeroporto di New York, mentre lui andava a lavorare con i dirigenti del sistema scolastico locale e io andavo a fare lo stesso alla Banca Mondiale a Washington DC. In quel periodo fui esposto a un secondo esempio importante. Il presidente della Banca Mondiale era il medico Jim Yong Kim. Jim era famoso per aver fondato l’organizzazione Partners in Health con il suo collega antropologo e medico di Harvard Paul Farmer. Nello sviluppo internazionale era comune pensare che i paesi poveri non fossero in grado di amministrare regimi medicinali complessi come quelli dell’Hiv per esempio. Troppe difficoltà, poche competenze, troppa burocrazia corrotta. Partners in Health dimostrò che si trattava di pregiudizi. Il problema era passare da una contemplazione sconsolata della complessità a comprendere quale fosse la radice specifica di ogni ostacolo. Negli anni 90 Partners in Health riuscirono a ridurre in maniera radicale la trasmissione materna di Hiv a Haiti, e negli anni successivi dimostrarono che trattamenti come quelli antibiotici per la tubercolosi multi-farmaco resistente potevano essere amministrati con successo in posti difficili come Haiti, Perù o persino nelle carceri russe.

  

Gli esempi di Michael Barber e di Jim Yong Kim puntano tutti nella stessa direzione: esiste una scienza della gestione della cosa pubblica volta a ottenere risultati misurabili. Gli ingredienti sono sempre gli stessi: una dedizione assoluta all’evidenza empirica, una disciplina analitica per capire quali siano esattamente i problemi specifici, e l’autorità e le risorse dell’esecutivo per aiutare specifici impiegati in specifiche istituzioni a superare i “non si può fare” o i “è troppo complicato”. La potenza non sta nella teoria di una singola idea, ma nella pratica disciplinata nel risolvere migliaia di piccoli problemi reali. 

  
Le leggi contemporanee sulle alluvioni, da quella sulla difesa del suolo del 1989, alla legge Sarno del 1998 a quelle successive, si focalizzano giustamente sulla pianificazione. Ma nella catena di risultati italiana che va dalle leggi all’organizzazione delle istituzioni a, infine, i processi operativi, ci si è concentrati troppo sulle prime, con un entusiasmo legislativo singolare, poco sulle seconde, e per nulla sui terzi. Ma sono i processi operativi a essere suscettibili di gestione, come dimostra costantemente la Protezione civile. La messa in sicurezza preventiva del territorio richiede di spendere soldi in migliaia di posti specifici con problemi singolari. La priorità deve essere sbloccare le enormi riserve di talento e competenze che vivono mortificate in una trappola di regole incomprensibili, disincentivi, e rischi personali che, collettivamente, versano sabbia nel motore della macchina pubblica. 

  

Dagli aneddoti che ho descritto, dovrebbe essere chiaro che l’unità di missione Italia Sicura che operò dal 2014 al 2018, quando fu chiusa dal governo Conte, era in linea con quelle esperienze. Con la sua infrastruttura di informazioni, i presidenti di regione come commissari straordinari, e il personale dedicato e competente, non aveva inventato nulla, ma aveva invece adottato un approccio comune, che stava dando prova di un lento ma progressivo miglioramento. Non è una panacea per tutti i mali, ovviamente, o una soluzione magica. Ma è un’idea capace di alimentare il progresso che ci serve ora e nei prossimi anni. Liberatisi quindi dal dover dare ragione a Renzi, che non è dopotutto l’ideatore di questo approccio ma uno dei tanti che ne ha visto il potenziale, l’attuale esecutivo e il commissario straordinario per la siccità dovrebbero darsi da fare per recuperare le infrastrutture informatiche e i talenti assemblati in quell’esperienza, assicurandone l’istituzionalizzazione permanente. Sbloccare le risorse, che questo paese indubbiamente ha, è un lavoro analitico e di relazioni difficile e continuativo. Ma è indispensabile per prepararci a ciò che ci aspetta.

Di più su questi argomenti: