Giuseppe Ayala (foto LaPresse)

"Sconfitti i complottisti della Trattativa. Vittoria dello stato", ci dice Giuseppe Ayala

Ermes Antonucci

Il pm al maxiprocesso del 1986, collega e amico fraterno di Falcone e Borsellino, commenta la cattura di Messina Denaro: "Il Ros tra le eccellenze di questo paese"

"Quando ho appreso la notizia ho fatto un salto sul letto. Perché, sì, sono passati trent’anni, ma l’idea che finalmente Messina Denaro da oggi sia nel posto dove dovrebbe stare, cioè al 41 bis, mi ha dato una certa emozione. Lo confesso, ho pensato subito a loro, a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E questo ha aggiunto all’entusiasmo una venatura di tristezza”. Intervistato dal Foglio, Giuseppe Ayala, pubblico ministero al maxiprocesso del 1986, collega e amico fraterno di Falcone e Borsellino, commenta la cattura del boss di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro. “E’ una vittoria dello stato – aggiunge – Per me, che l’ho servito per molti anni della mia vita, è stata una bella giornata. E’ anche la conferma di una cosa che molti italiani magari non sanno ed è normale che sia così: abbiamo delle forze di polizia, e parlo di Polizia di stato, Carabinieri e Guardia di Finanza, che sono tra le eccellenze di questo paese

 

Trent’anni e un giorno dopo la cattura di Totò Riina, è soprattutto al Ros, il Raggruppamento operativo speciale dei Carabinieri, che va attribuito il merito dell’arresto di Messina Denaro. E questo a dispetto degli schizzi di fango ricevuti negli ultimi anni a livello mediatico e giudiziario dall’organo investigativo dei Carabinieri specializzato nella lotta alla mafia e al terrorismo. “Non entro nelle vicende giudiziarie perché conservo la deformazione professionale del magistrato. Però ricordo che al processo di appello sulla trattativa stato-mafia gli ufficiali del Ros, Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, sono stati tutti assolti” – afferma Giuseppe Ayala – Questo è un dato di cui dobbiamo prendere atto, anche perché bisogna credere nella giustizia italiana. Per me si tratta di una sentenza convincente, anche se bisogna vedere cosa dirà la Cassazione. A ogni modo, il Ros ancora oggi ha dimostrato di meritare di essere scritto con le lettere maiuscole”.

 

Anche la latitanza di Messina Denaro ha finito per essere avvolta dalla narrazione sulla fantomatica “trattativa”. In questi anni, in molti hanno sostenuto che il boss era latitante grazie a un patto indicibile tra istituzioni e mafia. Quel “terzo livello” la cui esistenza è stata sempre negata da Falcone. “Anche se al confronto di Falcone io mi sento un nano, posso dire di essere sempre stato d’accordo con lui”, spiega Ayala. “L’ho anche scritto in un saggio che venne pubblicato su MicroMega nel 1988, dal titolo ‘La lobby mafiosa’. In quel saggio a un certo punto scrissi: il terzo livello non esiste e ho la presunzione con questo saggio di dimostrarlo. Cosa intendevo dire? Nella sua tradizione la mafia ha sicuramente rapporti con pezzi della politica e del potere burocratico. Ne ha sempre avuti e questo è fuori discussione. Ma la mafia non prende ordini da nessuno. Ci sono situazioni in cui possono crearsi convergenze di interessi tra pezzi del potere e Cosa nostra, ma un ‘terzo livello’ posto al di sopra della mafia e capace di dare ordini a quest’ultima non esiste”.  

 

Sulla scia della Trattativa, nel corso degli anni sono emerse tante altre tesi complottiste. Una in particolare, quella sul mancato ritrovamento dell’agenda di Borsellino dopo la strage di via D’Amelio, ha travolto anche lei. “Ha usato la parola giusta: complottismo. A proposito di quell’episodio, io mi ricordo soltanto di aver avuto questa borsa in mano e di averla consegnata a due ufficiali dei Carabinieri che erano davanti a me. Tutto questo accadde un minuto dopo che scoprii quello che restava del mio fraterno amico Paolo Borsellino: un tronco di uomo bruciato, senza braccia e senza gambe. Io in quel momento ero lì fisicamente, ma non capivo niente. E a distanza di quindici-vent’anni mi hanno chiesto dettagli di quell’episodio. Cosa vuole che io ricordi? Nonostante ciò, sulla vicenda si è scatenata una serie di dietrologie”.

 

Cosa rappresentava Messina Denaro per Cosa nostra? “Sul fatto che non fosse il capo di Cosa nostra posso essere d’accordo perché la tradizione vuole che al vertice ci siano famiglie mafiose palermitane”, spiega Ayala. “La vicenda dei corleonesi ne è la riprova: per impossessarsi di Cosa nostra, tra il 1981 e il 1984 i corleonesi dovettero far scoppiare la guerra di mafia. Il primo a essere ucciso fu Stefano Bontate. In quel periodo a Palermo ci furono trecento omicidi l’anno. L’idea che Messina Denaro, boss del trapanese, potesse arrivare al vertice di Cosa nostra non mi sento di avallarla. Tuttavia, mi pare evidente che rivestisse un ruolo importante all’interno di Cosa nostra. Non hanno arrestato un latitante qualunque, hanno preso un pezzo grosso”.