"Con l'arresto di Messina Denaro finisce Cosa Nostra, ora combattiamo la cultura mafiosa". Parla il generale Mori

Valerio Valentini

A trent'anni dalla cattura di Riina, termina la latitanza del boss. "Quello del Ros è un metodo che funziona. Vi spiego perché. La critiche e i complottismi? La madre dei cretini è sempre incinta". L'eredità di Dalla Chiesa e le sfide che ci attendono

La voce non tradisce emozioni. Il tono è quello di sempre, fermo. Ma per una volta, forse, alla tentazione della retorica cede. “Perché oggi è una giornata storica. Cosa Nostra, come organizzazione criminale, come struttura operativa, muore oggi, 16 gennaio 2023”. Ed è una data che per Mario Mori è doppiamente significativa. “E’ vero, a volte la vita riserva coincidenze stranissime”. Trent’anni esatti. “Trent’anni e un giorno, per l’esattezza”, corregge il generale. Tanto è passato dall’arresto di Totò Riina. Ora, Matteo Messina Denaro. “Che, di quella tradizione criminale, è l’ultimo interprete. Diciamo pure: l’ultimo epigono”.

 

Nel 1993 come oggi, però, ad afferrare il latitante più ricercato, il criminale più temuto, ci sono i Ros, il Reparto operativo speciale dell’Arma dei Carabinieri. “All’epoca, quando io ero capitano del Ros, un mio giovane collega era Pasquale Angelosanto. Lo stesso che oggi, da capo del Ros, ha guidato l’operazione che ha portato alla cattura di Messina Denaro”. Segno di una continuità che dura, a dispetto delle accuse, le critiche, le maldicenze. “Mi pare il segnale più evidente dell’efficacia di un metodo”.

 
Il metodo, nella fattispecie, fu quello ideato da Carlo Alberto Dalla Chiesa. E’ un po’ la sua eredità? “Lui lo aveva elaborato nella lotta al terrorismo. Quando, nel 1982, venne nominato prefetto di Palermo, fu in qualche modo naturale replicare quel modello. Ovviamente andò affinato, adeguato al contesto siciliano. Ci volle del tempo, una certa fatica: ma in fondo il terrorismo cos’è, se non una particolare forma di associazione criminale a delinquere?”.

 

Tra gli affinatori, tra i fondatori del Ros a Palermo c’era proprio lui, quel tenente colonnello dei Carabinieri, classe ’39, di origine friulana, che aveva già collaborato a Roma con Dalla Chiesa, dopo il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. “Quello che va capito, e che spesso ci si forza invece di fraintendere, è che il Ros è anzitutto un metodo d’indagine. Significa, in sostanza, creare un nucleo specializzato dove i superiori affidano a poche fidate eccellenze di concentrare le loro attività su un unico grande obiettivo, senza distrazioni, senza l’ansia di dover conseguire risultati intermedi, arresti di secondaria importanza”. Consegna delicata. Significa, spesso, dover agire in quella terra di mezzo tra stato e antistato, come si dice, nella zona grigia. E forse anche per questo proprio il Ros è finito al centro delle presunte trame occulte, bersaglio prediletto di chi costruiva teoremi su complotti e trattative. Una letteratura sterminata che ha prodotto anche processi, comme il faut: e tutta questa mitologia pataccara il generale Mori l’ha subita in corpore vili, finendo accusato per presunte connivenze, presunti depistaggi, presunti favoreggiamenti. Tutto spazzato via da altrettante sentenze di assoluzione. L’ultima sentenza, neppure sei mesi fa. Assolto, di nuovo. “C’è sempre chi vuole vederci del losco, del marcio. Anche nelle coincidenze temporali, nel fatto che certe catture avvengono in una certa data, anziché in un’altra, si fanno speculazioni, si alimentano retro pensieri”. Dunque anche in questa ricorrenza così particolare, nell’arresto di Messina Denaro all’indomani del trentennale di quello di Riina, ci si ricamerà? “Non mi sorprenderebbe. La madre dei cretini è sempre incinta. E del resto, non sarebbe la prima volta. C’è, e non da oggi, chi fa di tutto per ignorare il modo in cui un reparto operativo speciale deve operare per conseguire certi risultati”.

   
Quello di oggi, si diceva, ha una rilevanza storica. “E’ la fine di Cosa Nostra per quello che è stata: un’associazione criminale operativa”. La mafia, l’invito di Giovanni Falcone a considerarla un fatto umano: dunque davvero può conoscere una fine? “Nelle sue varie espressioni, sì. Ma attenzione: l’arresto di Matteo Messina Denaro segna lo smantellamento di un’entità criminale. Cosa Nostra, appunto. Resta però una cultura mafiosa, un sentire mafioso, che richiede altrettanto impegno da parte dello stato. Anzi, forse un impegno perfino maggiore. E’ quello che ha a che vedere con la scuola, la buona informazione, il lavoro. La lotta alla mafia passa soprattutto da qui, ben più che dall’avere ottimi magistrati e bravi carabinieri e poliziotti”.

 

Si spiega così, quindi, anche la difficoltà nella cattura? Trent’anni di latitanza. E lui, Messina Denaro, arrestato in una clinica di Palermo, a un’ora di macchina dalla sua Castelvetrano, che non si era mai davvero allontanato da casa. “C’era chi lo voleva in Sud America, chi in Nord Europa. Ma figurarsi. Gente come Messina Denaro o Bernardo Provenzano, in una città come Amburgo o come Parigi, farebbe la figura di Totò e Peppino a Milano”. Noios volevon savuar, eccetera. “Appunto. Invece no: il boss, tanto più in latitanza, ha bisogno del suo ambiente, del suo contesto culturale di riferimento. Lì si giova dei suoi contatti, dei suoi appoggi, delle sue aderenze. E questo testimonia, di nuovo, dell’importanza di agire con strumenti diversi da quella della repressione. Bisogna bonificare il terreno che consente al latitante di vivere, di avere consenso. Ed è questa la sfida che ci attende, ora. Ripeto: con la buona scuola, la buona informazione, la dignità del lavoro. Finita Cosa Nostra, bisogna continuare a combattere la cultura mafiosa”.

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.